L’uomo
è reduce da vendette, guerre, lacerazioni che hanno afflitto e
degradato geografie e storie. Gli orizzonti culturali, tratteggiati di
rinascita e ricostruzioni, hanno avuto, nel tempo, il proprio riscatto
avvalendosi della potenza del creare. Per il poeta che utilizza la creanza letteraria per
osservare e narrare le cose del mondo, l’umanità deturpata e
oltraggiata, è un macigno pesantissimo. La necessità riparte dalle
immagini della purezza del primo neorealismo per smagliare le trame del
dolore violento, inferto, spesso celato, non visibile. Prima di un
movimento dinamico verso il mutamento sociale la poesia si scontra con
il marcio dei mondi plurimi visibili e invisibili, con la materia degli
elementi, con le opposizioni di chi subisce e prova sofferenza, con i
carnefici/vittime o con le vittime/carnefici. Ecco la vedovanza del
mondo denunciata da Paola Turroni (Il mondo è vedovo – Carta
Bianca 2010), una solitudine memorizzata da eventi funesti della storia,
intrisa di incomprensioni tra gli esseri umani incapaci di sopravvivere
alla condizione del proprio isolamento esistenziale moderno. Il
simbolismo della parola, utilizzato dall’autrice, in forma vigorosa e
compiuta, metricamente scandita in afflati ritmici più che in figure
retoriche sancite, oltrepassa i limiti della filosofia della
conservazione e si articola in principali cori che si muovono in
un percorso psico-sociologico operando un nuovo itinerario tra mondo e
essere umano. La poesia orfana si affida alle proprietà della vita
quotidiana capaci di conservare reminiscenze di fragilità e
conflittualità dei rapporti interpersonali distintivi di un’epoca
documentabile così da codificare un altro ineluttabile reale possibile.
Il discorso poetico di Paola Turroni non è strutturato su logiche di
ripristino delle convenzioni probabili, come interpretazioni figurate
della condizione universale, ma sul potente raffronto del senso comune
tra il significante e il significato concettuale/semantico
dell’essenziale presente. La vita e la morte si danno la pariglia nella
prospettiva di un tempo materico che muta, sfugge e che passa scandendo
l’instabilità della visione dei vissuti umani e determinando il livello
di cambiamento intenzionale. Le forme robuste ed espressive della bontà
di questa poesia scavalcano le allegorie stigmatizzate dall’esperienza
ragionata del discorso letterario contemporaneo ed esplodono in una
dissoluzione della maschera intesa come schermo/filtro del reale.
I versi seguono la linea della corrispondenza dei fatti dimostrando che
si può scrivere in modo lirico sia per esorcizzare che per esplorare,
per rappresentare vie parallele e per disdegnare le acrobazie umane.
Qualcuno di voi sa cosa vuol dire
abitare un tappeto?
Il mio tappeto mi assomiglia – vedete?
I colori della mia gonna
conservo nel colore la mia terra.
Un viaggio siamo diventati,
con i divieti addosso, tenuti stretti
come un riconoscimento.
Un castigo di confini è diventata
la mia terra.
Nelle stazioni e negli alberghi abbandonati
dividiamo i pavimenti coi tappeti
un tappeto è il nostro riconoscimento.
Dorme un poco del mio sonno il mio bambino
rincalzo le coperte nella cassetta della frutta
la sua culla, il mio armadio.
È qui che tengo il pane, le monete per la nave
e la collana di mia madre – perché un giorno
io abbia una finestra, dietro la quale indossarla
a una figlia.
http://www.lestroverso.it/?p=1768
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