Recensione - Elena Varriale su Rita Pacilio 'Non camminare scalzo' Edilet Edilazio letteraria 2011




NELLA CARNE VIVIDA DEGLI SPASMI
 “NON CAMMINARE SCALZO” monologo teatrale di RITA PACILIO Edilet Edilazio letteraria

Dolore, cicatrici e ferite insanabili che dilagano ed ardono nelle viscere di bambina violata  e di donna incompiuta. Sono questi i protagonisti dell’intenso monologo teatrale “Non camminare scalzo” di Rita Pacilio, pubblicato da Edilet.
Io scrivo della carne che brucia, dell’aria che penetra l’umido che respira e si apre in penombra, in silenzio, in un senso disperso, nell’unico senso che conosce un dito, la mano” scrive l’autrice. L’intento è dunque chiaro: non solo raccontare, dare voce al dolore altrui, ma affondare con le mani e con le parole nella carne vivida degli spasmi. Precipitare “scalza” nella sofferenza e nel delirio del patimento usando un doppio binario stilistico in cui la prosa del racconto evolve fino a diventare poetica del tormento.
Ha infatti bisogno del verso Rita Pacilio per raccontare l’orrore dello stupro subito da una bambina: “Era mio padre. Avevo cinque anni/e due mesi, la sua schiava bambina,/la sua puttana, forse persi i sensi,/quella prima volta, forse persi/la ragione, forse persi per sempre, la mia parte migliore, quella che ognuno ha dentro/in quella macchia di sangue e fuoco sul lenzuolo”.
Ciò che sorprende e colpisce nella scrittura della Pacilio è il rispetto, la leggerezza ed il senso pieno della pietas anche quando deve narrare la crudeltà di una madre che si accanisce sul corpo della sua bambina: “Mia madre era l’unica persona/a cui avrei voluto dare un bacio./La seguivo per casa. Ne conoscevo gli umori./L’amavo senza remore,/i miei pensieri le imploravano/ una carezza. A me sapeva dare/solo dolore.”
George Bernanos ha scritto: “Chi cerca la verità dell’uomo deve farsi padrone del suo dolore”. Fare i conti col dolore significa quindi conoscere l’uomo nella sua essenza più intima e l’autrice sa che il dolore spesso è l’altra faccia del piacere. Non a caso, l’incontro sessuale e d’amore tra la protagonista ed il suo uomo che divide con un’altra viene raccontato senza veli e senza falsi pudori: “Giro con un dito in girotondo/al clitoride in piazza…e fa fontana!”
Non camminare scalzo è dunque un testo che non si limita solo a dare voce agli abissi umani, ma ricerca ed osa, nello stile e nel racconto. Va oltre, entra e fruga nelle cicatrici con la consapevolezza che solo attraversando tutte le spirali, le doglie del patimento, è possibile sfiorare, comprendere e “dominare” le afflizioni dell’anima: “rosa mi chiamano ma nasco spina/non so dirti l’attesa senza fondo,/è livida la mia profondità”.
Elena Varriale

Recensione - Aky Vetere su Rita Pacilio 'Non camminare scalzo' Edilet Edilazio letteraria 2011






'Non camminare scalzo'
monologo teatrale di  Rita Pacilio Edilet Edilazio letteraria

Lettura critica di Aky Vetere

Rita Pacilio nel romanzo: Non camminare scalzo, modella oltre confine un nuovo personaggio e costruisce un mito arcaico in prosa poetica, dove la donna, soggetto narrante, è anche oggetto di una trama cruda, anzi crudele (come mai potremmo aspettarci dalle parole di una madre), tessuta con pazienza femminile a due mani e con un filo prossimo ad essere tagliato. Come una maschera tragica inscena un divenire intessuto per anni, andando avanti e indietro con mani abili per divorare con dirompente coraggio ogni pruderie e presentando ciò che in questa società è d’uso nascondere dietro paraventi farisaici. In questo romanzo è sempre l’oltre che si legge, anche se certi paradigmi non cambiano per ricordare che la storia femminile è condizione esistenziale. Tuttavia ora le donne sono vittime e carnefici, denunciate e denuncianti, donne che diventano protagoniste di un dramma recitato in un solo atto dove i ruoli impersonati da una sola maschera porta il nome di dolore. Il dolore è locus minoris resistentiae della fragilità endemica della natura umana che tuttavia è necessaria. E’ un “pathos” che mi porta, pur in un contenitore diverso per tempo e ambientazione, a pensare al romanzo Una donna di Sibilla Aleramo, dove il demone del dolore si palesa sotto le spoglie della violenza che inscena la parte distruttiva di tutto l’impianto umano. Ma la novità di questo poetico romanzo è che le donne sono due; tutte vestono ruoli differenti (madre e figlia), con tutti i correlativi di una condizione femminile divisa e poi unita da un’esistenza tragica comune, finalizzata a far emergere un’analisi epistemologica del dolore vissuto come Necessità. Ogni azione, anche la più dura ed inaccessibile, è portata a svolgere un compito inderogabile. Gli uomini sono solo maschere che recitano una parte necessaria perché Ananchè è donna, madre anche lei, ma delle Parche, regine della vita e della morte. In loro è l’antinomia; tutto è inciso sulla carne con ferri incandescenti per imprimere con engrammi indelebili il valore del dolore necessario. La scrittrice ci può solo informare  liricamente (ecco perché la forma di prosa poetica del romanzo) che il tormento è necessario; necessario è far cadere ogni narrazione all’interno di un contesto in cui la storia è protagonista della vicenda umana e dove però ogni scissione di ruolo è fonte di pensiero e così ogni pensiero che nasce dal dolore è per natura tragico. La denuncia può intervenire solo alla fine, quando il dolore non est procedere in infinitum, cioè quando qualcosa interviene a tagliare il filo di questa tessitura e la morte diviene essa stessa liberatrice dal karma.                                                                                                             

AKY VETERE
                                                                                                          

Evento - Concerto per il Quarto Re Magio - Rita Pacilio 5 gennaio 2012 San Giorgio del Sannio BN



Concerto per il quarto Re Magio
‘Aver fede nella fede possibile’




Antonello Rapuano pianoforte elettrico
Vincenzo Saetta sax alto
Giovanni Francesca chitarra elettrica
Rita Pacilio voce e autrice dei testi 




5 gennaio 2012
Ore 19.00
Auditorium comunale ‘Al Cilindro nero’ Via Mario Lanzotti San Giorgio del Sannio Bn


‘Aver fede nella fede possibile’

Dalle librerie dell’ottocento un ulteriore monito alla mortalità umana, alla precarietà della vita, al disordine esistenziale: … - ‘Tu che fremi? – Ah! Ch’io morii nel nulla/ io ch’ero nato a  vivere immortal!... (‘La morte del ricco’ - G. Pascoli).  E’ indubbiamente nel segno della ‘morte’ che si costruisce il vero luogo dell’esperienza di riflessione spirituale cristiana. La morte intesa non come chiusura beffarda delle cose, ma come l’esaltazione della vita eterna donata dal Divino.  Bisogna, dunque, alimentare ‘la speranza di aver fede nella fede possibile’ (Yves Bonnefoi) cioè  in una speranza illusoria e ingannevole spesso governata dalla paura e dal vuoto esistenziale? La metafora dell’esistenza viene testimoniata dal lavoro dalla scultrice Monika Grycko che nella sua opera d’arte ‘L’enigma del quarto re mago’ mostra ‘il suo operare (oltremodo evocativo) e la sua poetica più che manifesta, in particolare quando  raggiunge sintesi di crudo impatto e di ferrea denuncia nei confronti della finzione, dell'ipocrisia e della desacralizzazione, valori negativi che pervadono i nostri tempi, minandoli eticamente’ (Gian Ruggero Manzoni). Il racconto liturgico-fiabesco del quarto re magio, personaggio legato ad una antica tradizione cristiano-ortodossa e ripresentato poeticamente anche da Michel Tournier, interpreta con una voce corale l’ intransigenza nei confronti dei diritti inviolabili e del rispetto dei talenti ricevuti (rispetto dal latino guardare, volgere l’attenzione). Si tratta di una figura di un re messaggero di forza e di coscienza della Natività intesa come un destino comune di vita e di morte e di infinita sete di conoscenza, ma anche di un personaggio che, arrivando in ritardo all’appuntamento con il Bambin Gesù, condivide la superficiale distrazione umana. ‘Le creature che l'artista polacca modella in lucida ceramica appartengono a specie decadute da una gloria precedente, drammatiche nel loro narcisismo e al contempo nella loro continua inadeguatezza: non possono più essere umani né animali. Questa civiltà è stata schiacciata dall'incapacità di osare una mutazione che la riportasse al di fuori del circolo vizioso creato da “capacità di conquista/acquisto - atrofizzazione dell'umano - soggiogamento fisico o psicologico di cose o persone” (Roberta Gucci Cantarini). I Re Magi, che dall’oriente si dirigono a Betlemme seguendo la stella cometa, citati nel Vangelo di Matteo (2,1 – 2,12) identificano la sconfitta e il trionfo della vita. La stella cometa diventa punto denso di un traguardo spirituale; ogni personaggio è aderente ad un’unica fisionomia reale fatta di debolezze umane giustificabili. Non si tratta di statue rigide senza parola ma le forme evidenziano l’aridità dell’indifferenza umana.  Il tempo non sempre scompagina il funzionamento degli ingranaggi delle cose occultandone le combinazioni significative, ma, come in questo caso, ne chiarisce il funzionamento e spesso le spiega. L’uomo di ogni epoca è venuto a trovarsi di fronte a quesiti legati alla tradizione religiosa sperimentando un ritmo evangelico come imprinting originario della salvezza. La fede del quarto re magio è la disposizione dell’uomo a riconoscere i propri limiti, il saper guardare alla trascendenza accogliendola  per gioire della presenza del Signore. Il suo ‘arrivare in ritardo’ ad ogni appuntamento ci rimanda al nostro stupore della vita, delle persone, delle cose e degli avvenimenti che spesso ci fanno rallentare l’incontro con Dio. Gli urti e gli scontri con la quotidianità prolungano stati d’animo negativi riproducendo falsi sincronismi vitali e ci si acceca di fronte ai simbolismi estetico-romantici ponendo resistenza alla voce dell’Amore sublime che sempre opera nel profondo del nostro inconscio. L’interazione della precarietà umana con la Parola del Padre risulta spesso una interrogazione speculativa della figura di Dio: i palpiti della vita sono incapaci di incarnarsi attraverso la morte da cui non trascendono? La separazione da Dio è comunque un trauma (thàuo in greco significa spezzare, disgregare, distruggere) che avviene ogni qual volta la nostra mente si astrae dall’Anima. Si dice che quando esplose nell’universo il primo nucleo di materia si sentì il suono di una lunga eco nello spazio: la nota più delicata che ancora permane nell’aria e in ogni cosa, può essere ascoltata solo dall’orecchio sensibile del poeta. Solo il poeta, come figlio prescelto, riesce a vedere ‘quell’immobile puntino di luce al centro dell’universo dove ogni cosa si incontra e ogni cosa si interseca’ (Charles Wright). La preghiera fatta arte si afferma come il collante armonico tra il cielo e la terra, come la stella cometa per i magi, punto denso di metafore morbide ed eloquenti di un versetto biblico. Non è facile cogliere il fremito soprannaturale che anima le cose rendendole ‘luminescenti’, non è facile esprimere con l’arte la ‘magia dell’estremo’ illuminando la ‘fiammante oscurità dell’ignoto’. E’ una sfida, oggi, osare l’amore in questo sfondo sociale contraddittorio fatto di universi plurimi.
Rita Pacilio




Poesia - Perchè tu eri solita camminare scalza per le stanze - Ghiannis Ritsos








Perché tu eri solita camminare scalza per le stanze, e poi ti rannicchiavi sul letto, 


gomitolo di piume, seta e fiamma selvaggia.


Incrociavi le mani sulle ginocchia, mettendo in mostra provocante i piedi rosa impolverati.


Devi ricordarmi così - dicevi - ricordami così, coi piedi sporchi;


coi capelli che mi coprono gli occhi.


Dunque come potrò più avere voce. La Poesia non ha mai camminato così


sotto i bianchissimi meli in fiore di nessun Paradiso.




(Ghiannis Ritsos)

Poesia - Lettere d'amore - Alda Merini

Rivedo le tue lettere d'amore
illuminata adesso da un distacco,
senza quasi rancore.

L'illusione era forte a sostenerci,
ci reggevamo entrambi negli abbracci,
pregando che durassero gli intenti.
Ci promettemmo il sempre degli amanti
certi nei nostri spiriti divini.

E hai potuto lasciarmi,
e hai potuto intuire un'altra luce
che seguitasse dopo le mie spalle.

Mi hai resuscitato dalle scarse origini
con richiami di musica divina,
mi hai resa divergenza di dolore,
spazio, per la tua vita di ricerca
per abitarmi il tempo di un errore.

E mi hai lasciato solo le tue lettere,
onde io le ribevessi  nella tua assenza...

Alda Merini






Recensione - Maurizio Alberto Molinari su Rita Pacilio 'Non camminare scalzo' - Edilet Edilazio letteraria 2011






'NON CAMMINARE SCALZO' 
monologo teatrale di Rita Pacilio Edilet Edilazio letteraria


Lettura critica di Maurizio Alberto Molinari

Io non ho camminato scalzo su Rita. Lei ha camminato scalza sulla mia emozione.
Conosco Rita da quasi 3 anni grazie ad un fine settimana letterario-poetico in quel di San Giorgio del Sannio – evento a cura di LietoColle - con grande “presenza” organizzativa di Rita. Questo incontro è stato fondamentale per me. Prezioso per l'opportunità di venire a contatto con molti poeti provenienti da tutta Italia, di puro piacere per la possibilità di entrare “realmente” nei loro versi e loro nei miei, per sfiorare timidamente le loro vite.
Con Rita non è andata così, no, proprio no! La simpatia e la sintonia si sono manifestate dal primo saluto, dallo sguardo pulito e intenso che regalavano i suoi occhi, dalla gradevolezza dei suoi versi, dalla passione smodata del suo Amico Jazz…
Così è cominciato un percorso di rifrangenze letterarie, poetiche, musicali, tensive che si depositavano sempre di più ad ogni incontro letterario, riflessi poetici che si scambiavano vicendevolmente nei nostri versi e nelle nostre sintonie.
La sofferenza è un tema che ci accompagna da lungo tempo e questo suo monologo “non cammina scalzo” nelle nostre vite, le sonda e le ricompone ogni giorno con una maggiore intensità e bellezza. 
La scelta di raccontare il suo Nulla non mi trova impreparato. Conosco e amo la sua sensibilità, sono semmai sorpreso dalla bellezza del suo coraggio, della pulizia del suo verbo.
Il suo Nulla è un percorso che molti non hanno il coraggio di intraprendere, una strada impervia che attraverso la fantasia - e stracci di realtà – disegna un nuovo modo di concepire il verbo significante e significativo, una originalità che appartiene all'Artista Pacilio.
La padronanza della lingua, la scelta dei vocaboli e dei suoi sensi, la sensazione di essere tracciati e definiti nella notizia, la sintesi vigorosa e sensuale che sceglie l’erotismo come verità, l’orgoglio di una fiaba acromatica in cui il bianco sposa il vuoto e il dolore, dove il sesso è figlio di orrore e piacere.

“Sembra una stanza organizzata / solo per maschi: sento / testosterone ovunque. Dappertutto / ci sono orsetti maschi / gli armadietti hanno nome: passerotto / orsacchiotto, delfino, canarino; / sono disegnati tutti animali maschi… / e anche l’orologio è maschio. / Il termometro, il … / il comodino con il bicchiere poggiato su. Il tavolo / è maschio; c’è una sedia azzurra, / ecco l’unica femmina qui dentro.” (pag. 52).

In questa opera di Rita la poesia e la prosa poetica si ritagliano uno spazio importante per regalare perle musicali che sembra di sentire sotto la propria pelle: “mi sono chiesta mille volte / cosa ha da dire un cane alle campane / della Chiesa, quando scende la notte.” … “Non mi sfidare. Non mi fare domande. Chissà quante notti passeranno stanotte.” (pag. 21). “(Non camminare scalzo sul petto che grida). Chiedimi le forme, le angolature, ogni piega che mi possa rappresentare… E poi ti prego, dopo avermi aperta, sfogliata una ad una le ciglia, purifica le spine della mia schiena. Fanne corona per le notti d’amore che ti chiedo nascosta. /Fammi lamento.” (pag. 23).

Questo viaggio nel Nulla sceglie la Notte, la forza dell’avvenimento (il mondo maschio ruota intorno a labbra dominanti e dominate dalla violenza), lo stupore di essere vittima e carnefice del proprio sangue, di scorgere la bellezza persino nel dolore più feroce, accecata dal buio del silenzio, tradotte in versi senza fine (Fammi lamento).



“Non camminare scalzo” è un meraviglioso spazio aperto in cui ad ogni pagina ci possiamo lasciare cullare dalla sua melodia o dobbiamo nasconderci alla realtà, dal “buongiorno di sorrisi in SMS” (pag. 27), alle “cosce come fate del tempo sudato” (pag. 29), ad un padre che “quando arrabbiato si trasformava: diventava una bestia. Affondava le unghie nella carne, si faceva spazio. Graffiava e incideva. Lasciava solchi nelle vene, senza pietà, senza remore” (pag. 43), all’amica Assunta “Rabbiosa come una gatta che graffia il suo pesciolino rosso tra le unghie”, del suo “Bevi con me! / Un brindisi all’erezione di un sorriso che fa mostra di cicatrici e vuoti” (pag. 66).

E’ un universo in piena il cammino di Rita! 
“Sono pioggia di una primavera di lacrime, sono pioggia dell’inverno lungo che è passato, sono tanta pioggia sui vetri dei miei occhi…”, “Ti racconto parole che non ti ho detto, ti racconto quasi decomposta, i miei cent’anni e più”. E’ realmente un sogno senza fine, la differenza è che queste parole hanno il potere di separarci dal tempo, di allontanare le circostanze dalla sostanza, di aprire spazi oltre il reale, di rendere leggero persino il tempo del dolore e della morte dell’amore.
E’ nella Luce vera della risurrezione che Rita compie il gesto più nobile, ci regala un sipario che si apre ad una esclusiva prima fila: “In questa luce vedo gli angeli. Non hanno contorni o materia. Sono figure diluite nelle sfumature. Sono colorati ma danno l’idea del bianco: una contraddizione cognitiva.” … “L’aura di cui sono circondati sembra un’ala gigantesca. Mi indicano passi da seguire e sorridono…” (pagg. 76-77).

Una vita rinnovata che si riscopre nel bianco infido di un avido-afono verbo malefico, capace di resistere alla tentazione della fuga per combattere la propria storia, ricusando il finto chiarore, “ma quel candido sapeva di sporco. Quel silenzio faceva rumore.” (pag. 81) per giungere infine alla sua chiusa, quel “Lasciami camminare scalza”, quel “voglio sentire il freddo della terra, prima che mi inghiotta” (pag. 84).

Non vedo l’ora di rivederla per donarle un abbraccio da Amico Vero e di riscoprirmi nel suo sorriso.


By Maurizio Alberto Molinari

Poesia - Concorso Arbor poetica 2011



Caderti nel tronco.


Dove va questo dio part-time
mentre io che sono niente prego
e fingo lo smalto alle parole
perché le unghie sono logorate.

Ogni cellula resta in esilio
ho il cappio al collo e aspetto.
Sto imparando a sognare l’aria
invecchio e canto gli schiaffi folli.

Non lasciare doni dietro le grate
non so risorgere da questo ventre:
sono la monaca dalla testa rasa
la mia lunghezza è marcia fino a te.

Sono stata il caso della scelta
una condanna cancellata fuori
senza logica, senza mai ragione
un tempo perfetto solo di notte.

Potrei guarire con il sole blu
fare le croci con la chioma rossa
una verticale fatta di carne
l’ombra nel midollo della vertigine.

Svanirti tra le braccia, credibile.



Rita Pacilio
Arbor Poetica 2011 LietoColle

Recensione - Pacilio su Alborghetti - Supernova - 'L'arcolaio' 2011





Supernova 
di Fabiano Alborghetti (L’arcolaio 2011) 
Commento di Rita Pacilio 


‘La morte è una poesia a metà/come un crocifisso ancora vivo/inchiodato sul lato del cuore…’ 
(Rita Pacilio © inedito) 


Il Poeta ha un appuntamento fisso con il dolore e anche se non è un credente leale non cela la 
ricchezza del suo rapporto arcano e spirituale con il mondo. Nella bellezza di esistere si 
racchiudono concetti multipli ed infiniti come i desideri o i fenomeni concettuali legati all’assoluto. 
Nella poesia di Fabiano Alborghetti l’infinito e l’assoluto sono attestati nelle persone che soffrono e 
che forse ‘amano ciò che non vedranno una seconda volta’. Si tratta, dunque, di sguardi puntati 
sugli esseri umani e non sugli oggetti da possedere o costringere: il progetto poetico è quello di 
unire le funzioni ordinarie biologiche al tentativo di opporsi e non astrarsi dalla realtà crudele del 
destino. Estrapolare il senso non dai versi, ma dalla singola parola poetica come per sviscerare 
metafore che appartengono alla scienza psicanalitica: sembra che ci si appropri del desiderio di 
appartenenza all’amore come un permesso alla libertà di esporsi con la pelle e la 
concettualizzazione del pericolo del contagio mentale. E’ vero che ogni poesia è vittima del suo 
autore? (Yves Bonnefoy) Se così fosse ogni poesia è il fallimento della poesia, ma il momento 
semplifica la testimonianza della coscienza e delle immagini che si riproducono, ogni volta, nuove. 
L’opera Supernova di Alborghetti supera e sopravvive al surrealismo. Se la ‘stella nova’ esplodendo 
raggiunge una luce armoniosa considerevole il tempo nell’universo e la stessa galassia contaminata 
dalla luminescenza folgoreranno la poesia. La poesia diventerà un tutt’uno con la vita e l’esperienza 
umana fino ad arrivare con semplicità consapevole allo stupore emozionale: le  cose che 
appartengono al dolore  saranno connaturate di enigmi suggestivi e percettibili agli animi prescelti.  
Si tratta di un linguaggio poetico che non prescinde la filosofia interpretativa del simbolismo per 
immagini: Supernova rivaluta il concetto di dolore come varco per arrivare alla saggezza dei propri 
limiti. 


Rita Pacilio