Recensione - Francesco Palmieri su 'Gli imperfetti sono gente bizzarra' di Rita Pacilio - La Vita Felice, 2012



“Gli imperfetti sono gente bizzarra”
di Rita Pacilio – edizioni La Vita Felice


“Gli imperfetti sono gente bizzarra”, di Rita Pacilio, è una silloge poetica il cui fulcro tematico è il disagio mentale; o meglio, è il segno grafico dell'impatto crudo e sofferto contro quella dimensione altra, “bizzarra”, dove i paradigmi di normalità, razionalità, pragmatismo, deflagrano, non reggono più, non assolvono più alla funzione di essere viatici della relazione dell'Io col mondo, la più coerente possibile. E' la visione-trascrizione angosciante del Kaos che travolge e soppianta il Logos, e la Pacilio sembra esserne lucidamente consapevole. Ma contrariamente a un Dante che sa, fin dall'inizio del suo viaggio ultra, che tornerà a rivedere le stelle, qui l'Autrice è assolutamente cosciente di un itinerario che non prevede uscite, miracoli, purgazioni redentive, teofanie possibili; sa in anticipo dell'impossibile 'lieto fine' che riscatterà l'orrore di una storia tragica: “Io mi trovo qui dove non si torna indietro.” dice; un verso lapidario, ultimativo, un lasciate ogni speranza davvero definitivo per coloro che inciampano nell'abisso infernale dell'alienazione.
Del disagio mentale possono dire, parlare, la psicopatologia, le più moderne neuroscienze o la poesia; le prime col loro linguaggio scientifico-medico necessariamente descrittivo, etiologico, distaccato, l'ultima in quel suo codice linguistico fatto di simboli, metafore, allegorie, analogie, similitudini e persino le insensatezze che tanto spesso follia e poesia hanno in comune (si pensi alla visionarietà di un Poe, di un Rimbaud o del nostro Campana). Rita Pacilio ne parla in poesia, vale a dire che ci mette testa e cuore, tanto cuore, con una compartecipazione così estesa, ampia, che arriva a sconfinare com-passionevolmente in quel reietto della postmodernità che si chiama anima.
E' difficile davvero tentare di mettere in evidenza alcuni aspetti topici del testo-libro, antologizzare a uso del lettore qualche singola poesia più perfetta di altre o addirittura versi di maggiore spicco e incisività semantico-formale, tanto costante è il continuum espressivo, emozionale, cognitivo, che regge l'intera struttura, il disegno totale, il passaggio di testo in testo. E dice bene Rondoni nella prefazione quando scrive che in questo libro non si corrono “i rischi del ripararsi, del coprirsi dietro la letteratura, i luoghi comuni, lo stereotipo”. Sono d'accordo: in questo libro non c'è letteratura, scuola di scrittura, compiacimento estetico, estetizzazione della parola o l'ormai conformistica e mimetica neosperimentazione linguistico-grammaticale, il pastiche babelico di un Novecento postumo; in questo libro la letteratura è ciò che ontologicamente deve essere la letteratura autentica:
un pretesto per dire, raccontare l'esserci nella sostanza di carne e sangue, intelletto e cuore che noi siamo; in altri termini, dire, raccontare la vita. Anche quando la vita è parola crudele, dolore afono, urlo. “Bizzarro” o savio che sia.
Francesco Palmieri

 http://www.lavitafelice.it/news-recensioni-f-palmieri-per-r-pacilio-1239.html


Recensione - Rita Pacilio su La nobiltà dell’ombra – corrispondenze – La Vita Felice 2013 di Valerio Mello

La nobiltà dell’ombra – corrispondenze – La Vita Felice 2013
di Valerio Mello
nota di Rita Pacilio

L’ombra è associata, in molte culture, a paure socioculturali e ancestrali. Gli indigeni delle isole Salomon, infatti, se calpestavano l’ombra del re venivano puniti con la morte. I poeti, invece, hanno adoperato l’ombra come luogo della rinascita fenicia, dove si vive, da quando si è bambini, la regola della fantasia e la consapevolezza della voce più intensa, potente dell’io. Se si acquista la cognizione di una percezione positiva dell’oscurità, l’ombra può essere riconosciuta come il nostro doppio che protegge e diviene la parte più disponibile all’io cosciente. Valerio Mello, nel suo lavoro poetico La nobiltà dell’ombra – corrispondenzeLa Vita Felice 2013, ci indica un superamento liberatorio della rappresentazione buia e ambivalente dell’ombra  muovendosi in un viaggio spaziale, simbolico ed espressivo, senza obblighi di dimora fissa. La forma non ha recinti sintattico-espressivi, né locazioni spazio-temporali, mentre le realtà quotidiane dei contenuti risultano distese e fuori dalle oscurità di mondi esistenziali, riferite ad un periodo storico ben delineato e collocato nella partecipazione della contemporaneità.  Una sfida della parola che diventa cammino verso la tolleranza delle diverse interpretazioni; è la stessa parola che fa da trait d'union tra le cose e l’essere umano che continua a ricercare il senso profondo e annichilito dell’esistenza. La ricerca prudente e responsabile di versi, capaci di concentrarsi sulle vicende umane scarnificate dalle sovrabbondanze moderne, è il veicolo più confacente a istituire la giusta illuminazione per aderire al progetto del superamento della marginalità, sia geografica, sia sociale e dell’inquietudine che deforma di continuo l’animo. Mello, infatti, si immerge nella passionalità dei disegni del mondo per sondare le esigenze diverse e le contraddizioni ricorrenti e provocatorie che turbano le coscienze. Interagisce in senso catartico con la fisicità del disincanto e, attraverso la parola, agisce interrogandosi e consegnandosi a una visione consapevole e razionale della vita, che deve essere accolta per quella che è, senza prostrazione.

 http://www.lavitafelice.it/news-recensioni-r-pacilio-per-v-mello-1181.html

Recensione: Raffaello Utzeri su 'Gli imperfetti sono gente bizzarra' di Rita Pacilio - La Vita Felice 2012




Recensione a: “Gli imperfetti sono gente bizzarra”, di Rita Pacilio

Nel profondo sentire, generalmente rimosso, di gran parte dell’umanità, la figura della sorella viene spesso percepita come quella di una consorte. “Mia sorella, mia sposa” recita il Cantico dei Cantici; e parlando di tempi lontani, ma non remoti, “La Sacra Famiglia” certifica che in varie tribù europee “la sorella era la moglie”. Due testimonianze così lontane nello spazio e nel tempo confermano un sentimento che risale a esperienze primarie dell’umanità, quando il potere tribale, non sappiamo se patriarcale o matriarcale, dovette occuparsi del controllo delle nascite per limitare la consanguineità. Nel conseguente “disagio della civiltà” prodotto dall’istituzione matrimoniale coi suoi tabù, il sentimento di affinità e l’attrazione tra familiari furono relegati alle fantasie infantili. Non è raro però che anziani coniugi convivano “come fratello e sorella” dando dimostrazione di coincidenza tra coniugalità e fraternità nell’amicizia: “e fatta bianca l’una e l’altra coma” secondo un visione petrarchesca non ancora oggi superata.
In senso quasi esoterico, fratello e sorella primari sono i due generi opposti e complementari, che convivono in ciascuno di noi nel corpo e nella mente, in equilibrio spesso instabile. Se questo viene compromesso, è possibile che l’oscurità della mente in un corpo disturbato intralci l’esercizio del libero arbitrio. Le vittime di questo “accidente” vengono poi relegate in luoghi senza orizzonte destinati ai disabili, o Imperfetti. Non tutti provano empatia per questa realtà, non tutti mantengono il contatto. Rita Pacilio lo fa, come donna e studiosa, come sorella e poeta. Inizia qui un pellegrinaggio che fisicamente la conduce, ironia della sorte, presso un lago simbolico della pazzia.
“Si increspa il lago di Nemi / in un gesto di doloroso silenzio …”. “Sale … l’azzurro elementare, ti aspetta davanti al cancello” dell’istituto che ospita l’infelice fratello circondato “nel luogo più lontano della solitudine” da esseri umani simili a noi, simili a lui, che soffrono del “morbo che cresce nell’addio”.
Sulle acque del lago sottostante, un celebre Imperatore circumnavigava ripetutamente il perimetro della propria follia con due navi gemelle; una sotto il firmamento della trasgressione tirannica e una sotto quello dell’espiazione: la nave dei folli e quella dei penitenti, nave bordello e nave tempio. Che il trauma di Caligola sia derivato dal desiderio frustrato di sposare una sorella non si può escludere: da lì forse la regressione infantile delirante prese le mosse.
Chi sia poi veramente sorella, nessuno sa dirlo; finché il genere femminile, che si muove nel dramma della natura umana in ognuno di noi, non si fa protagonista di fronte al maschile che, suo malgrado, risulta comprimario. L’attrazione verso l’unione totale di maschio e femmina difficilmente realizza in noi quel due in Uno del primordiale leggendario androgino e tende a trovare compensazione nell’essere Uno in due, scissione tra la paralisi della creatività maschile e la inquietudine della ricettività femminile.
Contrastare, se non sanare, questa realtà, richiede un sacrificio; il sacrificio richiede un’offerta, l’offerta richiama una vittima. In questo caso non può essere un animale, per quanto puro, ma la più cara delle idee. Qui è la poesia, ovvero la pietosa insania che abita in ciascuno di noi. Gli Imperfetti, gente bizzarra, non sempre possiedono questa pietosa insania, ma o una pietas senza insania o una insania senza pietas, come alcune loro espressioni verbali e mimiche spesso mostrano. Comunicare con il disabile mentale può significare allora uccidere o la parte d’insania insita nella forma, o la quota di pietas velata nel significato.
Non è dato sapere se la sorella creda o sappia di compiere una simile azione rituale; ma è quella che appare, quella che fa. Circoscrivendo il perimetro spaziotemporale del dramma nelle ventotto composizioni del poema, il centro del libro diventa il suo altare, su cui bruciare con l’infrarosso del pathos la passione che si fa compassione; mentre similitudini, metafore, analogie, e quante altre figure poetiche circondano coralmente l’altare dell’espressione, vengono incenerite in frasi, proposizioni, sintagmi, stilemi privati disperatamente del senso: lasciando in evidenza una scarna versificazione in quartine, anche ametriche o aritmiche, come ossatura fumante, scheletro calcinato nella combustione di sentimenti, emozioni e intuizioni:
“Se sotto le foglie c’è il resto sordo / anche l’altro tempo canta bugie / le scale di Montale sono ripide / grattano fino alla polpa bianca. … Amore mio io sono questa: / la bellezza del circo / la colpa di aver gridato / nel tuo gambo mendicante.”
Continua così, non troppo a lungo, questa operazione apparentemente autolesionista e in parte nichilista: l’unica forse che, azzerando il significato per esibire provocatoriamente il nudo significante, con qualche debito verso sperimentalismo e/o avanguardismo, si qualifica umanisticamente come condivisione di una esperienza non altrimenti definibile. Aveva detto: “Noi dispiaciuti li guardiamo enigma senza soluzione”.
Sperando che il fratello possa ricevere beneficio da un libro, a lui più destinato che dedicato, va detto che questa operazione risulta poetica in sé, anche nell’ anomalia che la distingue da ogni orazione o giaculatoria propiziatoria o apotropaica. La sua potente allegoria esoterica sembra trasformare la voce umana in polvere marmorea di frammentarie macerie, quasi reperti di un piccolo Taj Mahal raso al suolo. Circondata da quei reperti, la mente della sorella si fa custode dell’anima fraterna, che non è sua consorte ma, già considerata perduta, è stata ritrovata “nel posto più lontano” … “ e ora condiviso “…. della solitudine” come amorevole richiamo a una nuova dimensione della sublimità rivisitata.

Febbraio 2013 Raffaello Utzeri

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