Rassegna stampa - Agorà - numero 3 - marzo 2014 Rita Pacilio La Trilogia dei corpi offesi


Nelle pagine della cultura del nostro giornale
non potevamo non parlare di tre interessanti
opere letterarie scritte dalla sannita Rita Pacilio.
Sociologo, Mediatore familiare e dei conflitti
interpersonali, la Pacilio è una poetessa, Scrit-
trice, Collaboratrice editoriale Vocal jazz, ha
recentemente scritto tre poemi interessanti contro
ogni tipo di violenza.
La prima opera della trilogia che andremo
ad analizzare si intitola “Non camminare scalzo”
edito da Edilet Edilazio Letteraria.
Non camminare scalzo è l’incontro con la
sofferenza propria e dell’altro. Lo sguardo è
centralizzato sullo spazio interno del proprio
vissuto e la dimensione parola poetica permette
di esprimere il senso di alcuni momenti della
vita come esigenza di mettere a fuoco meccani-
smi interlocutori, seppur intimistici, per portare
a nuove vie di unione concrete e sociali. L’altro
diventa l’allarme di una comunicazione difficile
con se stessi o che non avviene più .
La seconda opera è intitolata ‘Gli imperfetti
sono gente bizzarra’, edita da LVF.
Poche opere di poesia mi hanno colpito
recentemente come questa raccolta di Rita Pa-
cilio. Un dolente e splendente diario, persona-
lissimo, dove la forza dei versi fila, tesse e spacca
la mormorazione in cui pure restano raccolti,
pronunciati da quel luogo inespugnabile che è
lo spazio dell’essere sorella. [...] Il libro è visio-
nario e intimo, ma in forza di una speciale qualità
di composizione e di concentrazione, evita tutti
i rischi che si incontrano in un corpo a corpo
così stretto con l’abisso. [...] la voce di Rita
Pacilio viene da un luogo intimo e indifeso. La
poesia-sorella non osserva, è una destinazione
comune, un luogo carne sangue comuni e indi-
visibili. Un amore che è conoscenza. L’osserva-
tore è in un luogo altro rispetto al gorgo, alla
pena, la sorella no. La sorella, lei sola conosce.
[...] Tutto il viaggio all’inferno, questa dura
traversata, dove i versi sono d’una bellezza
sfiancate e maestosa, hanno un centro di dia-
mante, castissimo e brillante: «Ho parlato al tuo
corpo fraterno».
Davide Rondoni ha scritto: “Pacilio mostra
in questo testo una qualità di misura e di potenza
emblematica che la accosta ad alcune voci della
migliore poesia italiana. Se dunque si vorrà
cercare un altro gruppo di pagine a cui accostare
queste, per luminosa impenetrabilità, per rispet-
tosa forza e arrendevolezza, si dovranno aprire
le lettere di Paul Claudel alla sorella Camille.
Anche là bruciava inintelligibile una fraternità
scossa, devastata e pur incrollabile”.
L’ultimo testo che appartiene al trittico della
Pacilio si intitola ‘Quel grido raggrumato’ edito
da La Vita Felice. La raccolta, che segue Non
camminare scalzo e Gli imperfetti sono gente
bizzarra, chiude una trilogia sull’inquietante e
doloroso cammino attraverso i temi dell’emar-
ginazione. Il volume si presenta come un ma-
nuale del sopruso, contro chi ambisce variamente
manovrare il corpo delle donne e dei fanciulli.
Ovvero un trattato, balisticamente in versi, dove
viene differenziato il mammifero maschio (e
talvolta femmina) che la suddetta opera scellerata
compie per piacere, lucro, lavoro, biologia,
vendita carnale. Il corpo poetico, in questo libro,
ricerca, enuncia e precipita, in modo finanche
notarile, la pratica maneggiona di coloro che si
condannano per un realismo moralmente e so-
cialmente insignificante.
Rita Pacilio, attraverso
la poesia, nomina l’innominabile nella prospet-
tiva dell’educazione, della rinascita, della rico-
struzione

https://www.dropbox.com/s/t4rqb5iybmt0ytc/agora-numero3-mar2014.pdf 

http://poesia.lavitafelice.it/news-recensioni-agora-anno-i-n3-marzo-14-per-la-trilogia-dei-corpi-offesi-di-rita-pacilio-2508.html 

Rassegna stampa - Diwali rivista contaminata segnala poesie di Rita Pacilio





 http://www.rivistadiwali.it/2014/03/23/poesie-rita-pacilio/

Diwali rivista contaminata segnala poesie di Rita Pacilio tratte da Quel grido raggrumato"

(23.3.14)


Ci sono sentieri che nascondono l’inganno dei lastroni
e le mani dei padroni sono daghe, punte venute dall’est.
Inganna la zeppa nera, si abbevera alla macchia riccia di sole
scruta l’iride abbassata il sonno del cliente, antico padre.

Sono parole sacre le voci dei bambini, tiepide le fronti
eppure i glutei hanno croste, boomerang colpiti nel segno
fino ai fianchi pulsano inverni consumati domani
intorpidite le rupi si muovono come nembi folli le bufere.

Non si aprono fenditure ma canaloni indecifrabili
un lappare lento, immaturo
che giunge all’agitazione tra le natiche della bestia
nel luogo livido di pianura chiuso in quel grido raggrumato.

*

L’hanno tenuta in due come un foglio, un lenzuolo
i polsi e le caviglie erano in una forma che si stira
un mandarino intero riempiva la bocca e la gola
nel chiarore del vicolo divaricato fra le trombe d’aria

il suo esame di idoneità, la preparazione al primo
cliente la rendeva frutto acerbo del cactus
desiderato dalla censura di chi si apre i pantaloni
e spinge guardandosi intorno che sia coperto

dalla colpa che non si fermerà nella frusta dei reni
ma sintonizza il morso e il liquido che cola
dalle due bocche aperte lungo una linea comune
in quel triangolo nero da cui escono periferie e disordine.

continua la lettura su Diwali

http://poesia.lavitafelice.it/news-recensioni-diwali-rivista-contaminata-segnala-poesie-di-rita-pacilio-2495.html

Recensione - Rita Pacilio: una trilogia tra pietas e poesia - Cinzia Demi per Rita Pacilio su Missione Poesia


 http://www.altritaliani.net/spip.php?page=article&id_article=1827

http://poesia.lavitafelice.it/news-recensioni-altritalianinet-cinzia-demi-per-rita-pacilio-2491.html

Missione Poesia

Rita Pacilio: una trilogia tra pietas e poesia

lunedì 24 marzo 2014 di Cinzia Demi
I corpi offesi di Rita Pacilio. Una trilogia poetica sull’inquietante e doloroso camino tra i temi dell’emarginazione. Un racconto documentato di voci e incontri drammaticamente offerto in anticamere di paura e violenza nelle varie opportunità che offre la poesia. Paura e poesia, angoscia e poesia, dolore e poesia, amore solo amore offre il poeta e “pietas”: “pietas” e poesia.
Rita Pacilio (1963) è nata a Benevento. Sociologo, Mediatore familiare e dei conflitti interpersonali, collaboratore editoriale si occupa di Orientamento, Bilancio delle Competenze, di critica letteraria e di vocal jazz. Ha pubblicato i seguenti volumi di poesia: “Luna, stelle…e altri pezzi di cielo”- Edizioni Scientifiche Italiane (anno 2003); “Tu che mi nutri di Amore Immenso” – Nicola Calabria Editore (anno 2005); “Nessuno sa che l’urlo arriva al mare” – Nicola Calabria Editore (anno 2005); “Ciliegio Forestiero” – Lietocolle (anno 2006); “Tra sbarre di tulipani” - Lietocolle (anno 2008) – “Alle lumache di aprile” – Lietocolle (anno 2010)- ’Di ala in ala’ (Pacilio/Moica in dialogo poetico) - LietoColle (anno 2011) - “Non camminare scalzo” - Edilet Edilazio Letteraria 2011 - “Gli imperfetti sono gente bizzarra” La Vita Felice 2012 - “Il cigno del lago” Pulcino Elefante di A. Casiraghi 8 aprile 2013 - “Quel grido raggrumato” La Vita Felice 2014 Autrice, performer e cantante jazz nel 2006 presenta al grande pubblico il progetto Jazz in versi: Contaminazione di poesia e musica jazz. Discografia: “Infedele” Splasc(h) Records. Collabora con riviste/blog di letteratura e poesia.

Conosco Rita Pacilio da qualche tempo. Una di quelle frequentazioni virtuali, su Facebook, dove nascono e si sviluppano, con buona pace di tutti, non sempre, ma sempre più spesso, legami indissolubili nati dalla condivisione di interessi comuni, e da affinità di pensiero e visioni sul mondo che contribuiscono a creare relazioni emotivamente forti, specie se a inventarle sono - questa è almeno la mia sensazione – donne intelligenti e creative, col desiderio di confrontarsi su tematiche sociali attuali, specie su tematiche di genere, e su valori sempre più difficili da mantenere.
Ebbene Rita mi ha colpito subito per la grande versatilità creativa, e per la carica emozionale e trascinante che traspare da tutte le situazioni che, in qualche modo, la vedono partecipe. Premetto che non ho mai assistito personalmente, de visu, a un incontro che la vedesse protagonista ma che, seguendola nel suo percorso, appunto, “virtualmente” ho da subito capito che si trattava di un’anima poetica eccezionale, nonché di una figura su cui riflettere.
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Rita Pacilio
Mi piacciono le persone comunicative – forse perché io stessa lo sono – che non si nascondono dietro false modestie intellettualistiche - che tanto si capisce subito che sono solo pose – e che hanno voglia di mettersi in gioco, specie nel difficilissimo campo della poesia. A maggior ragione mi piacciono se sono donne. Perché la poesia, diciamolo una volta per tutte, è uno di quei campi ancora a predominio prevalentemente maschile. E’ una dimensione di potere a cui si attaccano, purtroppo, tanti stereotipi ancorati all’universo culturale che sarebbe quello del predominio intellettuale maschile. Basta vedere i tanti incontri di poesia quotidiani con i così detti “nomi altisonanti”, (dove di rado incontrerete nomi di poetesse, e sempre in numero minore rispetto ai nomi maschili) e basta pensare allo stereotipo, ancora più evidente, che vuole le poetesse tutte morte suicide per le loro fragilità umane. Donna dunque come esempio di fragilità, debolezza, leggerezza… versificare? Sì le è concesso ma senza allargarsi troppo, senza invadere ruoli e spazi prestabiliti. I grandi nomi come la Szymborska? (ne cito uno a caso) … eccezioni. Non è così. Non è affatto così. In questa rubrica, povera voce forse nell’universo delle parole del web, ma tenace e determinata, il lettore si sarà forse stupito di aver incontrato per la maggioranza voci femminili. Voci di poetesse bravissime, forse neanche note a tutti gli addetti ai lavori (come mi è capitato di verificare) che costituiscono lo strato basilare della poesia italiana oggi. Una di queste voci è senz’altro Rita Pacilio. Il suo curriculum parla chiaro. Inserita nel mondo e nelle problematiche sociali fino al midollo, per i suoi tanti ruoli lavorativi e artistici, Rita è un’autrice esemplare che non sfugge davanti alla realtà drammatica che la circonda ma la racconta, dandole forza visionaria e rappresentativa, cercando di rendercela ben presente, di non scordarla attraverso quella parola poetica di cui è profonda conoscitrice e capace portavoce. La violenza, spesso spiazzante, delle immagini che si riflettono nei suoi versi porta il lettore a volte – è successo anche a me – a chiudere le pagine del libro. A dire: basta, non ce la faccio, non posso più leggere. E’ proprio lì che si insinua l’energia narrativa e oltremodo drammaturgica della Pacilio. Lì in quella finestra semidistrutta sui brandelli delle certezze che si traducono in coriandoli, lì in quei corpi che sono ormai solo sangue, in quei pensieri che sono solo fuoco sbattuto dal vento e miserabile aria che soffoca, lì sta il cuore e lo strazio del poeta che non può che raccontare, testimoniare, dare voce alla sofferenza e al macello del mondo. Quanto avrà sofferto la poetessa Pacilio per vomitare versi di lava, quanto avrà visto e sentito soffrire la donna Pacilio per decidersi a condividere con il lettore il peso di tanto dolore. Possiamo solo immaginarlo. Possiamo solo condividerlo e riprovare ad aprire le pagine del libro e andare avanti, nel buio sempre più fitto di atrocità che si fanno padrone di identità comuni.
La trilogia che vi presento è l’ultima fatica letteraria dell’autrice. Si potrebbe definire un reportage dall’Inferno. Un racconto documentato di voci e incontri drammaticamente offerto in anticamere, dove i graffi della paura spaccano le carni, e sciolgono in desinenze escatologiche i nervi del rimanere impotenti di fronte a tanto male. Paura e poesia, angoscia e poesia, dolore e poesia, amore solo amore offre il poeta, e pietas: pietas e poesia.
Ma andiamo con ordine.
°°°°°

Il primo libro, che esce per la casa editrice Edilet è del 2011, e porta il titolo: “Non camminare scalzo. La prefazione è di Raffaele Utzeri, la nota critica finale è di Giorgio Linguaglossa. Il libro porta un’introduzione dell’autrice che è già una dichiarazione di poetica. Dice la Pacilio: « Lo sguardo è centralizzato sullo spazio interno del proprio vissuto e la dimensione parola poetica permette di esprimere il senso di alcuni momenti della vita come esigenza di mettere a fuoco meccanismi interlocutori, seppur intimistici, per portare a nuove vie di unione concrete e sociali. L’altro diventa l’allarme di una comunicazione difficile con se stessi o che non avviene più[…]»
E’ certo lo spazio della comunicazione narrativa che cerca l’autrice per rendere conto di una comunanza di sentimenti, di un’empatia che l’ha portata a riflettere sul destino di una donna e madre che, in punto di morte, parla ai propri figli mettendoli a conoscenza di fatti che la riguardano, confessando sofferenze nascoste fino a quel momento, disagi e inadeguatezze, forse abusi familiari per i quali ha creduto fosse utile il rifugiarsi nel silenzio. Ma la morte, che avvicina alla propria coscienza e rende consapevoli della necessità di riconoscersi prima di lasciare il mondo terreno, funge da corda lanciata verso la liberazione dal male, da uscita di sicurezza, per dirla con Silone.
Nella prefazione, giustamente, Utzeri dice che l’intento dell’autrice si riassume nella descrizione del lascito morale della madre verso la figlia, che diventa una proposta di condivisione della sofferenza personale con quella propria della condizione umana, con particolare riferimento all’esperienza nata dalla conoscenza di figure, individuate nelle carceri femminili, oggetto delle più disparate forme di violenze fisiche e morali. Ma dice anche, ripercorrendo quanto già presentato dalla Pacilio nella sua introduzione, di quanto l’autrice stessa sia stata capace di entrare in sintonia con la protagonista del suo libro, di quanto sia diventato necessario ed evidente il gesto di sublimazione dei sentimenti destati dalla percorrenza e interiorizzazione di un simile incontro - reale o immaginario che sia -. La nota che mi sento di sottolineare, in consonanza ulteriore con il prefatore, e che è già emersa all’inizio del mio articolo, è la particolare mano stilistica che usa la scrittrice nel raccontare certi episodi, mano che suscita – a volte – un forte senso di nausea e quasi il rifiuto di continuare a leggere tanta è l’insistenza sui particolari corporei, sull’uso violento della sessualità che rasenta, a volte scavalca, la pornografia stessa. Certo la lingua è sapientemente usata, la formula scelta è quella della descrizione cruda dei fatti, spiegabili forse psicologicamente anche se – in apparenza, dico solo in apparenza - non giudicati o interpretati, e assolutamente teatralizzabili anche per l’alternarsi di momenti di prosa a momenti di poesia che rendono il testo fruibilissimo anche ad una platea da palcoscenico.
Resta da chiedersi forse, ma il discorso verrà maggiormente sviluppato nei libri successivi che esamineremo, quale sia il grado di dolore proposto dall’autrice nello scarto tra la sofferenza delle vittime e quella dei carnefici. Mi sento di dire, forse allontanandomi dall’interpretazione del prefatore, che qui i carnefici sono coloro che hanno adottato una forza tale di distruzione umana che li rende davvero privi di qualsiasi possibilità di compassione. Nel loro allucinatorio mondo il grido di vendetta perenne, che esce dalla violenza dei loro gesti, non trova giustificazione, a mio avviso, neanche volendo additare a responsabile il disagio sociale troppo spesso richiamato come primo artefice del male. Ritrovo solo una volontà di farlo quel male, di ergersi volontariamente sopra le parti a giudici e propugnatori di punizioni, a malnati boia, potrei aggiungere, ingaggiati da un male che è solo il proprio. Propongo qui qualche passaggio del libro:
Non camminare scalzo a quest’ora. Inutilmente i gesti rallentati ci avvolgono. Continuano a muoversi le ombre dei lampioni e imprudenti fanno a gara le lucciole fuori di noi. Se senti allungare una mano dal cuscino fino al marciapiede non ti voltare a prenderne le dita. i rintocchi della luna si risolvono in qualche spicciolo richiamo. un cane non fa a meno di abbaiare:
mi sono chiesta mille volte
cosa ha da dire un cane alle campane
della Chiesa, quando scende la notte.
Ogni tanto arriva un pensiero
dal balcone aperto del palazzo
che vedo dai miei vetri, per il resto
tutto rimane taciturno e sospeso.
*****
(Non camminare scalzo sulle spinte dell’amore che mi riempiva la mente come sta facendo adesso). Non fare rumore e toccati per me, ancora, come hai fatto fino a ieri, tu che non sai che non mi vedrai più.
Con l’ansia che mi ripeti ‘sei mia’
la campana delle sei del mattino
è la tua aria nel mio vuoto
lascio sulla sedia la mia sciarpa
L’immagine del tuo svanire:
adesso che sono disarmata
porto al collo solo la croce
è l’infermità che mi fa cellula
di certe identità folli
ed io sono la madre dell’infanzia
la moglie e l’amante e poi la figlia,
rosa mi chiamano ma nasco spina
non so dirti l’attesa senza fondo,
è livida la mia profondità.
Chi sa pregare per me?
Non so più intrecciare le mie mani
Non mettermi al suo posto adesso
io sono la vittoria di stasera
nell’immagine del suo svanire
tu sei l’eternità che dura poco.
*****
E di te nemmeno quelle parole scritte per paura di perdermi resteranno, come la sabbia dell’acqua nuova che arriva sempre mai ritorna. Mi avessi amato mi avessi detto: “resta con me ora che sto morendo!” Mi hai scaraventata da te senza remare. Ed io ti chino il capo il capo, spengo il telefono. Piovo sul cuscino la mia acqua amara. Aspetto con le mani nei capelli e lo sguardo nel cellulare. Vorrei squillasse o si accendesse. Quando tra dieci giorni vorrai sentire la mia voce sarà troppo tardi per dirti che io sono morta. Prima di te, oggi: due volte.
Se benedici mi ti poso l’alba
nascondimi al suo fianco muta
tu lo sai che t’amo?
mi stavo uccidendo a colori
Per me mutando il mio aspetto,
germogli confessati gli occhi verdi.
Vieni a dormire sul mio petto
senza l’anello ti sono fedele:
se ad occhi chiusi sono io lei
lascia sul cuscino tutti i silenzi
e scriverò ogni parola perduta
per dire come un’eco vedova,
chissà se porto tutto nella tomba.
sei passione che schianta le voci
come uno spostamento d’aria.
La senti l’eco laggiù nel burrone?
Ninna nanna, figlio mio, stanotte.
Io quando soffro muoio tutta intera
ed ogni volta non te lo ricordi,
accade che ti accorgi che esisto
quando non respiro
io sono eternità che dura poco.
°°°°°

Il secondo libro dal titolo “Gli imperfetti sono gente bizzarra” è uscito per La vita felice nel 2012 e porta la prefazione di Davide Rondoni (http://www.altritaliani.net/spip.ph...).
In questo lavoro attraverso un uso più costante di simbolismi e metafore – abituali strumenti di retorica della poesia – la Pacilio abbandona la crudezza delle immagini per addentrarsi attraverso una liricità, non meno espressiva di forma e consistenza di contenuti, nel racconto iniziato con la prima pubblicazione. Il corto circuito della verticalità, che eleva la poesia a narrazione di una frequentazione del “luogo sociale” dell’anima, è stanziato in questo percorso fuori dal coro che non giudica ma non assolve, non rinnega ma non costruisce, dandolo come dato già certo, il valore etico che deve essere proprio dell’aedo–poeta.
E’ la poesia l’unica arma che sembra poter difendere il visto, il vissuto, il subìto, e non l’indicibile ma il dicibile che trova fratellanza in quest’unica, umile forma. Condivido, a questo proposito, il passaggio del discorso di Rondoni quando dice: “[…] Solo una poesia che ha gli occhi spietati perché veramente pietosi d’una sorella vede che «sbavano meduse sul mento», e vede che certe pene sono più pesanti d’altre perché vi si mostra più chiaro e vicino «il morbo che cresce nell’addio». Uno sguardo che non fa sconto a nulla, né dall’alto né dal basso. […]”
Non c’è paura di esporsi troppo, nel dettato dell’autrice, non ci sono reminiscenze d’altri nella dimensione sua poetica. Piuttosto unicità di un canto e assonanze, queste sì, con pagine che solo inspiegabilmente vengono a galla nel non rimosso bagaglio di letture che ci portiamo dietro, come un’appendice necessaria. Dal mio bagaglio ecco così che salta fuori una pagina della Malombra di Fogazzaro (http://www.altritaliani.net/spip.ph...), figura ambigua e folle che vive la sua vita in un alternarsi di chiaroscuri entrando a far parte di quella schiera di imperfetti, di gente bizzarra che nell’impossibilità di trovare spazi reali ne tesse altri, finendo per rimanervi invischiata. Marina di Malombra perde, come molte delle figure descritte del libro di poesie in questione, la propria identità, la confonde con un’altra, compie gesti inconsulti di violenza omicida, si uccide lei stessa annegando nel lago che è stato lo specchio di tutta la sua delirante vicenda. Il libro di Rita Pacilio inizia con la visione di un lago, quello di Nemi che si increspa […] in un gesto di doloroso silenzio quasi partecipe delle vicende dei protagonisti, delle loro paure. Marina dice, sul finale del libro: « […] Musica![…] quella che vuoi lago mio! […] fuori di noi non c’è musica, non c’è che un vento. Le corde sono dentro di noi e suonano secondo il tempo che vi fa […] da me ci fa nuvolo, un tempo triste. […] non è una malattia la tristezza? Non abbassa la fiamma della vita?». Ed è in quella tristezza che sta tutto il dolore che la tormenta, un dolore di fine secolo, fatto di vuoti interiori, d’inconscio che affiora – per la prima volta in un romanzo – e che diverrà oggetto della, di lì a poco, nascente psicanalisi freudiana. Archetipo di malattie dell’anima Malombra dunque è riconoscibile in molti dei protagonisti, specie al femminile, delle storia della Pacilio che, incoscientemente, varcano le soglie dell’abisso interiore, spesso fino a un punto di non ritorno. Strano modo, ma efficace, quello della poesia che si fa padrona anche dell’inconscio pur di raccontare la verità. Qualche testo dal libro:
Si increspa il lago di Nemi
in un gesto di doloroso silenzio
a vederlo mordere nuvole
l’affanno arriverebbe in cima.
Salgono visitatori
in una strada scoperta riaffiorano
in mezzo alle piante
ragazze di colore nude a metà
pascolano paure
e cosce raggelate. E fisano
l’inquieta luce della sera
come fosse un contatto.
Chiedo perdono al mondo/come lo chiedo a te/per il mio peregrinare stanco/per l’urlo muto/per la corsa che mi affanna e dice./il destino è un cerchio senza fine.
*****
Sputa i suoi drammi
coi colpi di tosse
per gioco, per amore
scorie sottili nelle mani esibite
è latente lo scontento sulle spalle.
Gli imperfetti sono gente bizzarra
lasciati nell’arena, non so dire esattamente,
come un silenzio, un ghigno.
Ho pensato che Dio ama l’insicurezza
e le sfumature dei dirupi.
Io mi trovo qui dove non si torna indietro.
*****
E’ un morso prudente l’oscurità
un disegno fatto di assenze.
Si denuda l’incavo della spalla
svuotato dalla mano
come un gheriglio
una lumaca.
Amore mio io sono questa:
la bellezza del circo,
la colpa di aver gridato
nel tuo gambo mendicante.
O forse
l’inquieto participio
e l’ora scandita del risveglio.
Non capirò mai niente del nome della sera
dei lampioni spogliati come donne
e di te che ti sfaldi sul muro di casa.
*****
Nessuno può partorire dal suo grembo
nemmeno io che ho labbra
senza alito.
Sento sull’orma dei piedi
a spirale
una sola fede diventare burrasca.
Le cose distanti
assenti al nodo delle braccia
si lasciano alla corrente dei venti
come si fa con la vela in mare.
Dimmi
questo spartiacque diradato
è il mio passo breve?
Oggi lo separa una grata da Venere
c’è un buco in quella mano
fossa per leoni e spade cadute come glicini.
*****
Come se mettesse le mani a falciare
aprendo fenditure senza alcun pentimento
veloce di lepre sulla scapola erosa
resti figlio
destinato alla nascita morso dell’animale carnivoro.
Si fa di fuoco l’occhio quando arde
le lacrime punite dalla rabbia
un anatema predetto
che riconosco in modo verticale
accedere sull’unico pezzo di muscolo
ibernato
che ritorna a finire come la prima volta.
Si addensano, sul loro viso, tutte le preoccupazioni del mondo. Nel dubbio serrano le palpebre per ritrovare la notte, per non perderla.
°°°°°

L’ultimo libro della trilogia dal titolo “Quel grido raggrumato” è appena uscito, a gennaio 2014, ancora edito da “La vita felice”. Nella nota di copertina l’editore spiega che la raccolta “[…] chiude [appunto] la trilogia [dell’autrice] sull’inquietante e doloroso cammino attraverso i temi dell’emarginazione. Il volume si presenta come un manuale del sopruso, contro chi ambisce variamente manovrare il corpo delle donne e dei fanciulli. [denunciando colui che] la suddetta opera scellerata compie per piacere, lucro, lavoro, biologia, vendita carnale. […]”
Verrebbe da dire: altro libro, altra forma se pure per temi piuttosto conniventi e consonati, per questa nuova fatica poetica della Pacilio.
Questa volta infatti l’autrice sceglie per alcuni testi, i primi direi essenzialmente, la prosa poetica. Tre quartine lunghe nelle pagine, versi dal movimento lento e circolare, con una musicalità interna a tenerne su sapientemente il contenuto. La forma con cui si sceglie di scrivere è importante, non è mai un elemento secondario. Così la Pacilio, inserendosi nella migliore tradizione poetica, sperimentando dopo una prosa durissima mista a versi espliciti che quasi la superavano nelle immagini, dopo una poesia metaforica dal lirico simbolismo, stupisce con una terza forma, quella della prosa poetica in un assoluto continuum discorsivo con il lettore, che non resta mai deluso nelle aspettative create da questa autrice. Ma non è tutto.
A tratti, come a segnare la necessità di riappropriarsi della forma originaria, ecco ritorna la poesia, la versificazione più netta, l’andare a capo a segnare, a scandire l’affanno dei giochi, i sensi in subbuglio, il vertiginoso contorcersi delle vittime, l’ansimare animale dei carnefici. E’ il male che sconfigge ogni bene. Avresti pensato di aver già letto tutto il possibile, nei primi due libri, che non ci fosse altro modo di addentrarsi nel buio. Era un errore. Adesso tutto si fa più chiaro – più scuro – il dolore negli occhi e nei corpi devastati, martirizzati, torturati, infibulati, stuprati si fa tuo. Lo senti dentro di te. Non puoi farci nulla, ti prende. Avresti voglia di gridare: basta, è troppa l’immedesimazione che conduce a condividere l’indicibile. Grande compito quello che si è dato Rita Pacilio. Sarà amata e odiata al tempo stesso per aver troppo dato della sofferenza degli altri, e certo anche della sua, a chi si è addentrato in questa lettura. Qui si fatica davvero a riaprire il libro. Eppure lo si fa. Non c’è pagina che non ti infligga un coltello nella piaga ma il cammino va fatto tutto, fino in fondo. E’ solo in quel grido coagulato, fermo, raggrumato che la poesia si esprime, trova ragione e scopo del suo manifestarsi, riempiendo quelle lacune che il semplice racconto storiografico o cronicistico non può bastare a colmare. Ci vuole tutto il grido della parola poetica per provare a denunciare, questa volta sì, con un giudizio unanime di condanna chi compie tali nefandezze. Perché, alla fine, non è possibile non essere d’accordo con Simone Weil quando dice che: “C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male. È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro.” E allora, per chi si aspetta il bene, se ognuno di noi si aspetta il bene naturalmente, come valore insito nella condizione umana stessa, non può che essere doppiamente atroce subire il male. E questo non è possibile, no davvero, non condannare.
Ecco allora, per concludere, qualche testo:
Ci sono sentieri che nascondono l’inganno dei lastroni
e le mani dei padroni sono daghe, punte venute dall’est.
Inganna la zeppa nera, si abbevera alla macchia riccia di sole
scruta l’iride abbassata il sonno del cliente, antico padre.
Sono parole sacre le voci dei bambini, tiepide le fronti
eppure i glutei hanno croste, boomerang colpiti nel segno
fino ai fianchi pulsano inverni consumati domani
intorpidite le rupi si muovono come nembi folli le bufere.
Non si aprono fenditure ma canaloni indecifrabili
un lappare lento, immaturo
che giunge all’agitazione tra le natiche della bestia
nel luogo livido di pianura chiuso in quel grido raggrumato.
*****
L’hanno tenuta in due come un foglio, un lenzuolo
i polsi e le caviglie erano in una forma che si stira
un mandarino intero riempiva la bocca e la gola
nel chiarore del vicolo divaricato fra le trombe d’aria
il suo esame di idoneità, la preparazione al primo
cliente la rendeva frutto acerbo del cactus
desiderato dalla censura di chi si apre i pantaloni
e spinge guardandosi intorno che si coperto
dalla colpa che non si fermerà nella frusta dei reni
ma sintonizza il morso e il liquido che cola
dalle due bocche aperte lungo una linea comune
in quel triangolo nero da cui escono periferie e disordine.
*****
La città di mare si sgrana sonora
Emerge dalla sabia minuscola
non ha il sapore rancido dei morti
portati a galla con le palpebre
chinate al bimbo stretto al collo.
L’amore è così, una resistenza
scampata in modo sconosciuto nell’ora
in cui si fanno i giuramenti intatti
da cui nasciamo ubriachi nel tormento
già allargati dietro agli occhi
appianati, sgranati, rochi, dalla pancia
piena di grandi sassi e assenze
distesi come una fine.
*****
Si chiude in un palmo sbranato
l’affanno struggente, stagione meridiana
di vendetta, nel mestolo rigonfio di pane
di pietra e acqua. Baci indifferenti
trascinano unghie dall’oriente vicino
nel viaggio, nel congedo che cancella
e verifica mille miglia perseguitate
dai vincoli paterni, il viaggio
del silenzio interminabile di quadrivi
senza affetto dove si spengono fughe sventurate.
I muggiti e i pianti dei bambini si mescolano
ai labirinti esuli, pallidi e la maledizione
fa il resto nel sangue verde di lucertola
ferita sul marciapiede.
Cinzia Demi

Recensione - 'Quel grido raggrumato' di Rita Pacilio - LVF, '14 - GianPaolo Grattarola recensione su Mangialibri






Osservare la contraddizione e l’orrore della condizione umana, abitarne la violenza e ammansire la reazione in un grido dolore raggrumato, è la sfida di questa poetessa che sembra camminare stordita accanto all’abisso. La manifestazione naturale degli assurdi eventi rimesta gli umori e agita i sonni dell’anima, spinge le oscurità del corpo all’inerzia dell’abbandono: “le hanno insegnato l’arte di star muta./ Le hanno portato due maschi già duri e pronti,/ mascherati. Poteva guardare senza lacrime,/ né ansimare, senza dire. Era negra”.  Raccapriccianti evocazioni di soprusi perpetrati sul corpo delle donne e dei bambini si abbattono sui versi, scaricando nella poesia tutta la disperazione sofferta di un dolore a stento trattenuto dinanzi a un contesto troppo duro ,in cui squarci di un mondo logorato da movimentate angosce rendono vana ogni possibilità di riscatto: “I muggiti e i pianti dei bambini si mescolano/ ai labirinti esuli, pallidi e la maledizione/ fa il resto nel sangue verde di lucertola/ ferita sul marciapiede”…
Quel grido raggrumato è una silloge di rara forza, forse quella in cui la vena incendiaria di Rita Pacilio riesce a esplodere con maggiore veemenza, senza che nulla si perda di quanto appartiene alla poesia. La durezza è totale, ma lo è in tutto, nella fermezza dello sguardo come nel patimento  delle commozioni, nella proiezione dell’angoscia come nell’invocazione alla denuncia sociale. La comunicazione è dunque assoluta, la scrittura vissuta in un rischio radicale, la soggettività messa in gioco in un dispendio che non ammette deroghe. Perché per Rita Pacilio la poesia è prima di tutto esperienza vivente e vitale. I suoi componimenti offrono chiavi di lettura che si coagulano in un altrove ignoto e non fissano alcun punto di riferimento per il lettore. Eppure in ognuno di essi di realtà se ne trova molta, minuziosamente ricreata e filtrata da una creatività a tinte forte, dove sta a noi immaginare il prima e il dopo. Perché il dramma, questo sì è certo, nel frattempo si sta già  dispiegando in tutta la sua crudele efferatezza.
GianPaolo Grattarola
21 marzo 2014


http://www.mangialibri.com/node/14019

http://poesia.lavitafelice.it/news-recensioni-rita-pacilio-su-mangialibri-recensione-di-gp-grattarola-2483.html

Partecipazione - Avellino, Rassegna poetica "Il vizio ineluttabile della scrittura": Rita Pacilio in 'Quel grido raggrumato' LVF, '14




Sabato 22 marzo '14, ore 17.00, per l'incontro di letture di poesie organizzato da Giovanna Scuderi Edizioni, nell'ambito della Rassegna "Il vizio ineluttabile della scrittura", ad Avellino, Caffé Letterario, Via Brigata Avellino 41/43 (inizio Corso Europa) Rita Pacilio presenterà testi tratti dal suo ultimo lavoro 'La poesia come impegno contro tutte le forme di violenza: la trilogia dei corpi offesi' ('Non camminare scalzo', Edilet - 'Gli imperfetti sono gente bizzarra', LVF- 'Quel grido raggrumato', LVF)




Approfondimenti -'I sensi di colpa', appunti di studio di Rita Pacilio per EstroVerso


 http://www.lestroverso.it/?p=6232


Nella nostra vita da adulti ci accorgiamo che molti nostri comportamenti derivano e sono condizionati, a livello più o meno cosciente, dai valori appresi nell’ambito familiare. Per esempio chi ha acquisito un gran senso del dovere nella famiglia di appartenenza, potrà sentirsi in colpa nei momenti in cui si svaga, nonostante il riposo rientri nei diritti di ciascuno. Questo senso di colpa è definito ‘psicologico’ e ‘malsano’ perché crea, in chi lo prova, disagi e sofferenze inutili. Ci sono, di contro, dei sensi di colpa ‘sani’ perché, grazie ad essi, è possibile rimediare all’errore commesso. Questi si definiscono anche sensi di colpa ‘morali’, sopraggiunti quando la persona che li prova si rende conto che il suo comportamento ha danneggiato altri. Infatti, se un uomo va a letto con una donna (o viceversa) sostituendo sua moglie (o marito), (anche se si tratta di relazioni importanti o fragili e sporadiche), si sentirà in colpa di aver agito in modo sbagliato. Viene considerato senso di colpa ‘sano’ perché l’individuo può riparare il danno commesso; infatti, dopo aver assunto consapevolezza del comportamento inadeguato ed errato, quando torna a casa dalla moglie/marito sarà più amorevole migliorando, così, la sua condizione matrimoniale e, quindi, se stesso. Le norme o le leggi morali che la nostra cultura ci propone sottintendono dei doveri che, se non vengono assunti, fanno scaturire sensi di colpa, nonostante siamo consapevoli che la variazione di queste norme dipende dal territorio di appartenenza e dal tempo storico/sociale in cui esse vengono applicate. Le leggi morali, quindi, sono scritte in modo arbitrario e molto spesso, di fronte a una nostra scelta, ci troviamo soggiogati dalla difficoltà di poter prendere una decisione serena che possa soddisfare i nostri bisogni/desideri. Una delle caratteristiche dei sentimenti legati ai sensi di colpa sani è la loro compatibilità con il livello di autostima: infatti, ci si può sentire sanamente colpevoli e continuare ad avere un sentimento d’affetto/amore generando il forte desiderio propositivo di riparare l’errore/danno commesso. Invece, i sentimenti di colpa malsani fanno scaturire auto-aggressività e auto-disprezzo punitivo e mortificante, quindi fanno diminuire il livello di autostima di colui che lo prova. Questi sentimenti possono generare comportamenti compulsivi, come ad esempio, mangiare troppo, andare a fare jogging in modo esasperato, fare shopping esagerato, fare sesso senza amore oppure sesso trasgressivo. Può capitare che i sensi di colpa vengano utilizzati per accattivarsi la pietà degli altri così da mitigare la paura di una punizione divina. Alcuni psicologi, infatti, ritengono che il livello alto o basso dell’autostima dipende dall’idea che abbiamo di Dio: un Dio punitore e crudele ci farà avere una scarsa stima di noi, al contrario la sua benevolenza alimenterà un’alta autostima; infatti può capitare che le letture sacre vengano interpretate in modo soggettivo producendo innumerevoli sensi di colpa. Fare i conti con un errore commesso che, nel corso del tempo, continua a pesare sulla nostra coscienza, vuol dire dover riflettere molto per capire le circostanze che ci hanno portato al comportamento scorretto. Si potrebbe osservare l’intero percorso di quella scelta sbagliata ponendoci al di fuori di noi stessi, guardandola con distacco, proprio come se quell’azione l’avesse commessa qualcun altro. In questo modo possiamo essere più predisposti alla comprensione e al perdono di noi stessi e degli altri anziché analizzarci in modo rigido colpevolizzandoci. Nel corso della nostra educazione familiare, scolastica e religiosa ci sono stati inculcati numerosi ‘dovresti’ che, se non vengono vagliati in modo critico, selezionando i doveri che veramente fanno parte del nostro sistema di valori da quelli che ci colpevolizzano inutilmente, possono portare l’adulto a vivere continuamente condizioni di insoddisfazione.
È interessante verificare che, nei rapporti interpersonali, possono verificarsi fenomeni di manipolazione del concetto che si vuole far accettare a tutti i costi.
La manipolazione è di tre tipi:
a)      manipolazione mediante sensi di colpa. Frase tipo: ‘Guarda come ti comporti dopo tutto quello che ho fatto per te!’;
b)      Manipolazione mediante disapprovazione. Frase tipo: ‘Fai come vuoi, vorrà dire che mi regolerò di conseguenza!’. Questa potrebbe considerarsi una fase ricattatoria;
c)      Manipolazione per induzione del senso di ignoranza. Frase tipo: ‘Ti conviene ascoltare i miei consigli perché io ho già fatto queste esperienze e ne so più di te!’.
Il comportamento manipolatorio farà accumulare molta tensione che sfocerà in una eventuale ribellione vendicativa, oppure in fasi legate alla depressione, paure, ansie, disturbi psicosomatici. L’atteggiamento giusto di fronte alle norme dovrebbe essere quello critico con la capacità di saperle filtrare. Per evitare o uscire dal pericolo della manipolazione c’è bisogno di concentrarsi sulle azioni positive per se stessi spiegando all’altro che comprendere il suo punto di vista non vuol dire accettarlo e condividerlo, ma rispettarlo nonostante la disapprovazione.


Poesia - 8 marzo 2014 'Poesia sospesa' alla caffetteria Settebello di Napoli, via Benedetto Croce, 8 - Rita Pacilio in lettura




Non importa il solco

Avrei voluto piangerti con gli occhi di una vecchia
con le dita scuoiate e spaventose
dipinte sul mio volto scavato
caduta, graffiata dai calcinacci di sguardi gonfi
rabbrividita nel ventre ossuto
cupa e rabbiosa come un astro nella notte,
invece facevo il rumore di un ramo, umido, sradicato
bianco di acero, troppo smilzo
che sperava di indossare le tagliole nel terreno
un segno triste, cammino della memoria di tibie e cosce.
Avrei voluto farti tornare indietro dalla bocca dei vermi
aprirti alla luce di te stesso
sperare di cambiare il fregio dopo la pioggia
togliere la ruggine alla melma appiccicosa
e partorirti senza mestruo.
Avrei voluto farti scivolare dal mondo all’età di ottant’anni
dopo quaranta estati ammainate nell’erba secca
cresciuta sulla tua barbapapà.
Adesso continua a muoversi l’oscurità sulla tua schiena.


'Quel grido raggrumato' - La Vita Felice 2014

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A NAPOLI SFILANO VERSI PROFUMATI DI CAFFE’

“Leggermente schiumato, appena macchiato, bollente in tazza fredda”. Chi si avvicina al banco trova subito il suo verso, fumante come il caffè. Il barista, i gusti dei suoi clienti li ricorda tutti e, se sono avventori di passaggio, li riconosce a vista: “C’è una poesia sospesa per lei, ristretta amara al punto giusto”.
Alla caffetteria “Settebello”, nel centro antico di Napoli, stanno ultimando le prove tecniche di presentazione di un evento che non ha precedenti: la degustazione della poesia sospesa al bar.
L’appuntamento è per oggi alle 18, in Via Benedetto Croce 8 angolo via San Sebastiano, al Settebello, caffetteria di Pino De Stasio, il poeta-gestore che ha aiutato Ketti Martino a realizzare l’idea.
Ci sarà “la meglio gioventù” della poesia campana, Rossella Tempesta, Viola Amarelli, Angela Caterina, Rita Pacilio, tanto per citare qualcuna delle presenze letterarie di spicco. La scelta al femminile è obbligata, in considerazione del concomitante evento che oggi si celebra nel mondo. Ma ad alternarsi al leggio ci saranno tutti, i poeti di Napoli e Campania, in una rassegna che prevede altri cinque incontri.
Sfileranno nella bella sala i versi profumati di caffè di Vera D’Atri, Monia Gaita, Antonietta Gnerre, Arianna Sacerdoti, Silvestro Sentiero, Costanzo Ioni, i Poeti di “Levania”, la rivista degli inediti italiani e stranieri, Federica Giordano, Raffaele Urraro, Giuseppe Vetromile, Vanina Zaccaria. La rassegna si chiuderà il 3 maggio con le poesie del padrone di casa, Pino De Stasio insieme a Bruno Galluccio e Ciro Tremolaterra. Non si escludono versi fuori programma del pubblico presente.
Morale della favola: basta con i noiosi salotti letterari, con gl’incontri asfittici di aulicità. Se uno proprio vuole, anche una poesia un po’ macchiata si può degustare come un caffè, insieme a un caffè, dopo un caffè. Perché la poesia, come il caffè, ci mette in pace con la vita.
Gaetano Agrelli

Partecipazione - Presentazione Antologia poetica 'Ifigenia siamo noi' Scuderi Editrice a cura di Giuseppe Vetromile (Un testo poetico è di Rita Pacilio)

 Presentazione Antologia poetica 'Ifigenia siamo noi' Scuderi Editrice
a cura di Giuseppe Vetromile
Testi di:
Rita Pacilio
 VANINA ZACCARIA
 ANNA TUMANOVA
 REGINA PEREIRA
 
VERA MOCELLA
 
KETTI MARTINO 

AMALIA LEO
 GIOVANNA IORIO
ANILA HANXHARI 
FEDERICA GIORDANO
 
FLORIANA COPPOLA
 
GAETANA AUFIERO
 
LUCIANNA
ARGENTINO
GIOVEDI' 20 MARZO ORE 17.30

BIBLIOTECA "B. PERROTTA", Viale Marconi, Casavatore (Na)

Evento organizzato dall'Associazione CLARAE MUSAE di Vittoria Caso.

Relatrice: prof.ssa Vittoria Caso


MARTEDI' 25 MARZO, ore 17.30

AVELLINO

Evento organizzato da Scuderi Editrice.

Relatrice: Flavia Balsamo