Recensione - Fausto Nicolini su Pacilio 'Tra sbarre di tulipani' Premio Città di Bellizzi 2010: Menzione d'Onore con medaglia

 

  Fausto Nicolini
Rapsodia per Rita Pacilio
12 aprile 2009
 
Dio mio, quanti poeti in Italia! La poesia potrebbe sembrare opera pressoché estinta e invece sorprende un sospetto di genere quasi cavalleresco: nell'ultimo anno temo siano più le pubblicazioni poetiche che i cellulari venduti; più i versi scritti che il numero di chiamate da rete mobile. Stupisce però che lo share di una silloge sia così misero; peccato che gli sforzi editoriali per promuovere la poesia siano, in sostanza, devoluti alla protezione della stessa. Detto così sembrerebbe un tristo paradosso!
Leggendo versi di centinaia di autori sconosciuti, qualcuno appena rinomato, ho apprezzato, anzi, sto imparando ad apprezzare, quelli di una nuova amica, rimasta ancora avvolta nelle nebbie del web. Ci siamo ritrovati a comporre insieme giochi di poesie, grazie ai potenti mezzi offerti da internet, senza alcuna difficoltà, instaurando una sorta di complicità "versifera" (parola composta dal verbo versificare e dall'aggettivo lucifera), e quando abbiamo intuito che l'affair stava per prendere una piega pericolosa (luciferina, appunto) ci siamo immediatamente astenuti dal proseguire. Poi mi è capitato di leggerla in assolo: prima raramente, poi più frequentemente.
Rita Pacilio da Benevento, ha pubblicato per i tipi di LietoColle (2008), "Tra sbarre di tulipani". E' dovere chiarirlo - il mio scritto non vuol essere una recensione al volume, né una promozione, né un'introduzione a se stante. E' una semplice relazione emotiva alla lettura di alcuni versi dell'autrice. Non ho avuto, infatti, ancora il piacere di leggere l'intera raccolta, ma mi sono soffermato su qualche composizione posta in visione sul sito della casa editrice.
Simbolicamente tra sbarre e tulipani intercorre un accordo assai disarmonico, un rapporto poeticamente ispido perché le sbarre, di norma, serrano, racchiudono nel buio, mentre i tulipani svettano liberi verso un cielo illuminato; inoltre gli steli (che presumibilmente dovrebbero formare la griglia della ipotizzata cella) lascerebbero i petali indecisi di aprirsi all'interno o all'esterno di essa... ma sulla scelta del fiore nessuno può dare una risposta certa; e siccome, con ogni probabilità, non ne è sicura nemmeno l'autrice, noi lettori non ci poniamo questo dubbio, ma abilmente aggiriamo il problema, cercando di risolverlo con un'altra spiegazione. Magari con una nostra interpretazione, anche spavalda.
Personalmente mi sono lasciato coinvolgere da singole parole usate con decisione e precisione, dalla Pacilio, da singoli versi uniti da un comune procace sentimento, che mi hanno rinnovato l'emozione del primo grande amore letterario: la Salomé di Oscar Wilde, opera tra le più sensuali della storia della letteratura. Infatti le poesie lette sono di un'incandescente sensualità. Anche quando si nasconde dietro ombre più sobrie si coglie la parola che ammicca alla voluttà, l'espressione di carnalità. La Pacilio sembra s'impossessi del testo wildiano per rimescolarlo in versi con la sua sensibilità, partendo dall'elemento più seduttivo: la luna. "Com'è bella la luna questa sera", così comincia il dramma dei sette veli. E la Pacilio risponde come se a parlare fosse proprio Salomé prima ancora che appaia in scena: "Portami via Luna nel tuo deserto"... "Sciolgo i capelli nell'altro quarto di luna"... che... "si rovescia su di me". Salomé è pronta a diventare donna e non sa come fare, si sente perduta, rinchiusa com'è nella reggia d'Erode. Avverte il suo corpo invecchiare già: "Nell'oscura mia valle svanisce / la voce che non dici / E il silenzio minaccia / le cose che respirano sotto il sole". Il primo illibato tulipano osserva attentamente la sua intimità e non può fare a meno di pensare che "Il perimetro è strangolato da rovi". Ci sono atmosfere davvero luciferine che la luna crea e gli autori raccolgono: dietro il candore lunare si cela sovente un fatto di sangue, determinato da una passione che esplode imponente. Certamente si tratta d'amore, ma amore fatto di sensi, di sospiri, sì, ma licenzioso, un amore sviscerato da malinconie romantiche alle quali sono preferite perfino le più reali angosce dell'insoddisfazione. Wilde contrappone alla seduzione di Salomé, la quale non da donna ma da femmina si appropria del potere del sovrano, la seduzione verbale di Iokanaan, cioè la parola (l'altro tulipano), quella che la Pacilio così traduce: "Dalla mia bocca / si distende / l'acqua / che va al mare...". Com'è mediterraneo questo senso di possedersi violentemente, anche soltanto con un diverbio incandescente che è l'esubero della passione che cova in certe storie del nostro sud! "Superba / la lingua / sventola baci" E da questa lingua fuoriesce, appunto, una cascata di parole come fosse acqua che va al mare, quindi verso l'orizzonte da cui sembrerebbe più facile acciuffare la perversa e liberatoria luna, che fa sospirare all'amante "E la tua lingua / dai capezzoli risale alle ciglia l'acqua" - da questa lingua, dicevo, nascerà il dramma scatenato da gelosie e invidie a catena da parte di Erode e di Erodiade. Iokanaan, innamorato della giovane figlia della regina, dal buio della sua cella urla: "Mi hai cucito la bocca con il filo spinato / e le mie parole di sangue / hanno allagato la strada sotto i tuoi piedi". Salomé è vinta: "Non sento più il respiro da prostituta / né il calore di mia madre dalla carne giovane". E poi ancora: "Ora che sono / schiava / di questa carne". La principessa non può far altro che obbedire ai suoi istinti di donna: "Il fantasma mi prende per mano. Con vigore", scrive ancora la Pacilio - forse inconsapevolmente, forse no - lasciando immaginare che sia il fantasma di Iokanaan, ancora vivo, a guidare le decisioni di Salomé, la quale per liberare dalle sbarre (ecco le sbarre!) dietro cui è rinchiuso il bellissimo Iokanaan (ricordiamoci: per Wilde, Iokanaan è la Bellezza fatta carne) per poterlo amare liberamente, per poterlo avere tutto suo, è costretta a implorarne la morte. Ma prima però c'è un tentativo segreto dei due amanti di possedersi almeno una volta: "Fammi due carezze dietro le sbarre", sembra dire lui. E Salomé finalmente sfacciata e decisa a concedergli la verginità: "Dammi la lunghezza / della tua carne / perché la mia tana / non è marcia". E al finale della tragedia chi potrebbe dire a chi "Guarda la luna. Le vedi le lacrime?" ... Potrebbero essere le parole degli amanti finalmente liberi di possedersi di fronte alla luna, ma mi piace supporre che sia il lamento di Erodiade, matriarca che ha fallito nei suoi intenti, e si rammarica ora di sapere sua figlia morta per ordine dell'uomo che per anni, lei, ha cercato di ingannare. Da lontano arriva l'eco di Salomé: "Sarò sola come ora. / A strappare con i denti / le ortiche dai miei passi".
Bocche che trasudano parole di sangue, lingue voraci alla ricerca di baci... pelle stropicciata, seni e capezzoli: la poesia di Rita Pacilio è fatta essenzialmente di carni illuminate e nascoste da voluttuosi chiaroscuri lunari. (fn)
 
Fausto Nicolini



Atterra un po'
di quel giorno
in cui il mio buio
sospirava ancora.
Portami al cimitero
con i tulipani
e le ginestre
fiorite al freddo.
Come quando ridevano
le nostre rughe amanti
della morte dell'altro.
Riposami ora la quiete
e nel silenzio di tutto
parlami di niente.


Rita Pacilio
Tra sbarre di tulipani LietoColle 2008

Recensione - Pacilio su A. Fava 'Pancia di carta'


 R. Pacilio su Fava

06 novembre 2010

‘Pancia di carta’
di Alessia Fava


‘Pancia di carta’ è un cammino poetico nella ‘parola’. Un ritorno alla ‘parola’ che inizia e continua nella ‘parola’. Si ricompongono e si scandiscono nei versi con limpida trasparenza linguaggi volutamente nitidi in tutta l’Opera. La Poesia che ‘incontro’ è un atto preciso di comunicazione vera che mira a non lasciar spazio a fraintendimenti o a coincidenze del dire.

Alessia Fava propone un’Opera Prima ricca di strumenti metodologici indispensabili al lettore per la dovuta e certa comprensione di una forma espressiva, dinamica, flessibile, cauta, con le dovute pause. Non c’è bisogno di replicare l’esperienza del passato nel presente: il passaggio del tempo viene inteso nella sua interezza. A volte l’Autrice si allontana dal tempo quasi come se ne prendesse le distanze. L’io diventa il me. Si lancia avanti la donna lasciando dietro di sé la bambina che si fonde con quel passato già stato bloccando le parole chiave che diventano tematiche come bisogni interiori. Alcuni versi ricordano André du Bouchet: ‘Je marche pour raccourcir mon ombre’.

La ‘Pancia’ e la ‘Carta’ di Alessia Fava riportano verso l’ ‘altro’ che può essere la parola, la voglia del dire, ma anche il silenzio, la voce di dentro, la pulsione, il soffio interiore. Gli intervalli o le pause del tempo sono le prossimità dello spazio attorno a cui noi dimoriamo: si tratta di energia vitale, di sfumature. Tradurre, quindi, le immagini in significati, in spinte personali, in rinvii, in atti, in archi voltaici. Sono le verticalità della sintassi e l’idea della rottura delle componenti tradizionali di quegli schemi metrici che usati rigorosamente promuovono un testo poetico. Nel senso più usuale, però, si fa danno alla freschezza e alla intima e incolmabile creazione di una presenza d’arte profonda e fluttuante. Il verso, qui, diventa decostruzione di se stesso riscattandosi nella sua voce narrante, restituendo un coinvolgimento tipico di un linguaggio poetico post-moderno. R.P.


Pancia di carta
 
La mia pancia di carta
è foglio di neve
a farsi rugiada d'incontro,
in trasparenze taciute
a macchiarsi di blu e di rosso.
 
Potresti scrivere tu la storia,
io stabilirei gli a capo
nei giorni della distanza.
 
Con la bocca a camminare
di pagina in pagina,
ricamerei virgole in ogni verso
per cadenzare
poemi orfani di epilogo.
 
Come la mia pancia di carta
ingannevole, mai paga
ispirazione d'artista
ad attendere bianchissima,
in giochi d'inchiostro,
l'anelito di te - poeta. 
 


Recensione - S. Contessini su Pacilio 'Ciliegio forestiero'

  

Aspettavo piovesse  ai frutti
e ai petali ancora.
Nel terreno
ero ciliegio forestiero.
Aspettavo a rami aperti
                                 l'ala
e il suo spezzare l'aria
quando si posa
e si riposa.
Era l'avvento di un Natale
che non mi corre incontro.
E conta il tempo.

Rita Pacilio
'Ciliegio forestiero' LietoColle 2006

 S. Contessini su Pacilio

05 luglio 2008
 
Dagli strati da cui si attingono le sostanze da trasformare in linfa vitale, Ciliegio forestiero estrae umori stranieri, per contrade di emozioni contrastanti, fuori dall'ordine domestico cui il ciliegio è vocato e dentro una narrazione riottosa ai canoni dei ruoli prescritti.
La cruda carnalità senza veli si offre al lettore maschile quale essenziale narrazione del desiderio trasformata in rappresentazione complessa del divenire della sfera affettiva.
La condizione del desiderio inappagato si presenta come consapevolezza della sfida alla rassegnazione delle convenienze.
I componimenti di Rita Pacilio si leggono come segni sulla carta carbone, calligrafie di alfabeti che raccontano significati differenti da quanto essi stessi si incaricano di narrare.
"Senza fretta al chiaror di luna" una lunga attesa di una notte d'amore da conservare nella borsa del fine settimana, si trasfigura nella tensione di raggiungere quanto è lontano.
All'apice della frenesia fluttuante, quando tutto si muove e la spira di una coda diviene l'onda che inghiotte, dalle linee asciutte dei versi erompe un'onda di rimando, offerta come una seconda opportunità a fronte dell'occasione perduta.
Si coglie nei versi di Rita, la conoscenza di un confine invalicabile, infiorescenza di passata primavera che si fa frutto di ciliegio, vermiglio esemplare che cerca labbra in cui insidiarsi.
Il corpo che infuria nella dimora della passione si fa lucido fendente di parola; un corpo femminile di parole per il linguaggio del corpo.
Così Ciliegio forestiero diviene finestra aperta da cui traguardare vedute sconosciute, voce di una fertilità creativa che mostra, senza schermi, l'esistenza di universi in cui gli archetipi espressivi di uso comune collassano in se stessi per ampliare le prospettive delle due metà di cielo e farne frutto comune.
Poesie che graffiano e che sfidano l'intima convenzione dei ruoli. Stimoli a rigenerare le sensibilità che ognuno possiede per arricchirle di interrogativi che le affinano, soprattutto se di ordine maschile.


Salvatore Contessini.
Settembre 2006

http://www.lietocolle.info/it/s_contessini_su_pacilio.html

Recensione - Pacilio su F. Casucci 'Dalle sue labbra pulpito rosa'

Dalle sue labbra pulpito rosa'
prima raccolta di liriche di Felice Casucci
Tommaso Marotta. Editore, Napoli. Ceri P. (a cura di), 1987

Commento poetico di Rita Pacilio

Trovo la ricerca disperata dell'identità e dell'identificazione dell'autore che è meditata attraverso un amore o più amori in fioritura destinati al declino. E' possibile cogliere il desiderio dello scrivente di sdoppiarsi psicologicamente, oltre che fisicamente, dalla inibizione e dalla banalità dell'ardore dell'età virile. A volte sono ricercate le deviazioni di rotta per offrirsi a braccia larghe a ritmi e a tempi diversi come avviene in quasi tutte le ‘opere prime'. Una poesia che commenta l'osservazione del proprio vissuto, una voce moderna che non tollera ma lascia al lettore l'omissione della colpa. Non sono misteri le aperture di orizzonti che suggeriscono la libertà da retoriche ridondanti ricordandoci che i sentimenti sono capaci di rinascere nuovi e nuovamente ad ogni lettura. Al lettore arriva la verità e il caso: scene duttili in cui la propensione ermetica spesso attinge nell'inconscio ciò che il reale nega. Esigenza strategica del "grande poeta è di obbedire soltanto ad un destino" (Pietro Citati).
'La libertà del pensiero e della immaginazione appartiene più ai lettori che agli scrittori: quasi che uno scrittore per essere veramente tale, debba essere costretto ad abitare spazi molto perimetrati, mentre il lettore, quando legge, può abitare ogni mondo, scegliere ogni destino. Insomma si è più felici quando si legge che quando si scrive' (Giancarlo Pontiggia).
E' vero, chi legge penetra e vive i milioni di destini degli scrittori, a meno che, come Leopardi diceva di se stesso, ‘i lettori mentre leggono stanno già scrivendo!'.

Recensione - Pacilio su M. Aragno 'Zugunruhe'






Zugunruhe


Solo da qui, da questa parte
voglio ripassare sul marciapiede
qui dove tra due palazzine
si rischiara il giallo dei platani
e pare quasi di tenerti nel tempo.
Tremano i nomi, Giulia
quelli che senti in una piazza
in un chiosco con i giornali
lasciati sui tavolini all’aperto.
Si resta soli la sera
quando intorno si fa la città
e si scrollano i piccioni dai rami.

Marco Aragno

Zugunruhe LietoColle 2010










Zugunruhe di Marco Aragno
Commento di Rita Pacilio


Lo Zugunruhe è un comportamento irrequieto che si presenta negli animali migratori, specialmente negli uccelli, a cui viene impedito di migrare, ed è il titolo dell’opera poetica di Marco Aragno.
In senso figurato potrebbe anche significare (mi piace immaginarlo in senso poetico!) una ‘dolce ansia’ o ‘frenesia’ di linguaggio che diventa il prodotto del silenzio inteso come sorgente di significato. Il silenzio intimo inteso come la fonte cui attingere la parola che diventa espressione vitale per il Poeta che descrive con precisione ed esattezza l’intenso coinvolgimento con la contemporaneità sociale.
Attraverso rimandi a Mario Luzi, nella Poesia di Aragno, riattraversiamo Ungaretti, Montale, Campana, ma si potrebbe andare anche più indietro, a matrici classiche. (‘Ma quant’è vaga nell’aria la luna…’)
La Poesia di Aragno si muove nelle forme dell’essere umano: non si chiude in essoma con consapevolezza genera nelle immagini le pienezza della lingua d’uso quotidiano operando una scrittura poetica vicina alle inquietudini del lettore.
Il Poeta nelle sue esplosioni linguistiche non si distacca dal microcosmo in cui è calato e non propone la sua ‘luce’ in modo febbrile cercando di sorprendere il macrocosmo con nuove metriche e laboriose tecniche linguistiche.
L’Autore intraprende con Zugunruhe il suo umile cammino sia lirico che contenutistico come testimonianza esistenziale, stratificata e corale di una realtà socio-problematico-universale centrata sull’ ‘io’ Poeta- mundi, in cui la giovanissima età dell’Aragno esce di scena lasciando spazio all’universalità della Poesia.

Recensione - Pacilio su Pallaracci ' Mi salvò l'ala sonora' - Poesia: Tacchi a spillo per l’estrema unzione








































Tacchi a spillo per l’estrema unzione


Non meravigliarti ora
se non riesci più
a trovarmi
chinata, a racimolare pietre
che accumulavano sabbia

hai sottovalutato
il rosso incerto delle profondità
e ti sembrò d’esser salvo
in quell’andare quieto
d’ombre agli angoli;
ma tu non sai la bellezza
che disvela una tenebra
quando una scheggia di sole
insidia i tramonti

non distingui quel tremore
di tacchi
nel continuo cigolio
delle spallate alla mia porta

[un solo gesto galante
le sarebbe olio naturale]

e tra un acuto e un basso
di gola, ti lascio
alla notte che semina e matura
i frutti che ti nutrono
alle spine.


Sylvia Pallaracci
'Mi salvò l'ala sonora' LietoColle 2011




Silvia Pallaracci
‘Mi salvò l’ala sonora’
Commento di Rita Pacilio

L’ipotesi di partenza è che quando leggiamo poesie che parlano di ‘corpo’ e di ‘carne’ non ci troviamo semplicemente di fronte a ‘parole’ che parlano necessariamente di erotismo/estetico-letterario. ‘Il fare letterario è canonizzato – Luis H. Antezana – da una delle sue modalità espressive e ancorato tradizionalmente a quella distinzione tra verso e prosa mediante la quale la poesia – o meglio ‘il poetico’ – impone una misura di eccellenza relativamente al proprio operare artistico’.
Appaiono, quindi, molto forti i giudizi dei tradizionalisti che negano il carattere poetico delle forme innovative di sperimentazione d’avanguardia suggerite da una storia editoriale moderna che tende a produrre nuove correnti letterarie. Ovviamente è complice il lettore che memorizza l’istante reale o immaginario proposto dall’Editore/Autore interscambiandosi con l’io estetico come atto verbale, libero di ‘arrangiare’ il senso interpretativo delle sfumature d’ombra.
Il quesito di fondo: l’impulso poetico è un atto ontologico?
La Poesia resta la forza ardente per parlare di sé invertendo la fantasiosa sperimentazione del nonsenso erotico fino ad esibirsi ‘parola acrobatica’ in una bizzarria di immagini sensuali.
Silvia Pallaracci, in una dimensione di affabulazione (concordo con G. Linguaglossa) ma in forma irrequieta, contaminata da pause metaforicamente domate, debutta con ‘Mi salvò l’ala sonora, distinguendosi per l’atemporalità significativa del suo tono poetico.


Poesia - Un inedito di Rita Pacilio su 'Ritratti di Poesia' di Mario Fresa



Mario Fresa. Ritratti di poesia (13)

Rita Pacilio

Eros e Thanatos, in simultanea coincidenza di intenti, si rincorrono e si uniscono nella tragica e appassionata poesia di Rita Pacilio. L’elemento che lega le due forme archetipiche del desiderio e della morte, del pieno e del vuoto, della volontà e dell’abbandono, è costituito dall’interrogazione del tempo e dei suoi inafferrabili, occulti segnali; ed è appunto nel dialogo con ciò che non potrà più essere, ovvero con ciò che manca per sempre, che si rivela uno dei nuclei salienti della riflessione poetica di Rita Pacilio: la contemplazione di un’orma lasciata, la constatazione di una voragine impossibile da colmare o da dimenticare. La poesia agisce, quindi, come il luogo dell’evocazione e della rimembranza, come il centro degli eventi già passati e irrimediabilmente consegnati, una volta per tutte, alla sofferta dilatazione di un infinito silenzio. Ed è certo un luogo che vibra di oscure risonanze, di assilli inconsumabili, di proiezioni che annunciano il persistere violento di una perdita irreparabile; ma l’alone, l’ombra, la propagazione di quella perdita ritornano affannosamente, con doviziosa costanza e con acuta ossessione: così la lingua poetica si fa pure, paradossalmente, strumento di salvezza e di assoluzione, perché nel nominare un evento fa sì che quello stesso evento non muoia mai del tutto; anzi permette che si ridesti a una vita rinnovata, e a una diversa sorte, più cangiante e indefinita. Affrontare e rivivere la ferita di un dolore, studiarne il volto e identificarsi con esso, risorgendo ogni volta con la virtù di un’amorosa dedizione: queste le principali, sensibili coordinate di un discorso che mai teme di confrontarsi con le trafitture del sacrificio e della disperazione, sempre e solo confidando nella risorsa di un invincibile amore: così tutto – il passato e il presente, la distanza e l’immanenza – spinge il poeta a vivere e a soffrire le scosse di una lotta interminabile, segnata da istanti di esaltazione e di sconfitta, nei quali s’intersecano e si succedono la malattia e il risanamento, il gelo e la passione, la sofferenza e l’affrancamento, la voluttà e il tormento.



Trasuda la costola di ricordi
si lamenta e danza sull’altare
riflettori accesi cinque volte
ed era festa sotto il vetro.

Mi sono procurata i lividi
di notte mi segnavo con la croce
tentavo i graffi con la carezza
facevo la morta sul calvario.

Indossavo il saio e il cilicio
io ero l’orrore del suo letto
la strage degli agnelli innocenti
una guerra sulla pelle divina.

Ma ero un argine di veleno
addensata di rosso e castità
poteva bastare una parola
persino l’aria avrei baciato.

Invece piovevo cadaveri
e gli occhi piangevano nudi.
Ora accarezzo lenzuola di casa
le hanno messe nella mia chiesa.


Dove mi affanno in queste cose.

(inedito R. P. © Tutti i diritti riservati)



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Rita Pacilio è nata a Benevento. Sociologa, si occupa di Poesia e di Musica Jazz e di Orientamento e Formazione nell’ambito dello Sviluppo delle Politiche del Lavoro Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Luna, stelle e altri pezzi di cielo (2003); Tu che mi nutri di Amore Immenso (2005); Nessuno sa che l’urlo arriva al mare (2005); Ciliegio Forestiero (2006); Tra sbarre di tulipani (2008); Alle lumache di aprile (2010); Di ala in ala (Pacilio – Moica, 2011). Nell’agosto 2006, l’autrice presenta al grande pubblico il progetto «Parole e musica» - Jazz in versi: una proposta progettuale ideata e curata dalla Pacilio che sceglie per alcune sue liriche la musica di Claudio Fasoli, noto compositore, arrangiatore, sassofonista di fama internazionale, il pianoforte di Massimo Colombo e di Antonello Rapuano, la chitarra di Giovanni Francesca e la tromba di Luca Aquino.
Discografia: Infedele.

dalla tradizione i nuovi percorsi farapoesia

Recensione - 'Di ala in ala' Pacilio/Moica - LietoColle 2011

 

 

F. Della Porta su Di ala in ala

22 aprile 2011

R. Pacilio, C. Moica: Di ala in ala, Lietocolle, 2011

Alla svolta del millennio si affaccia alla ribalta letteraria una schiera di giovani poeti che disattendono le reliquie del novecento, ossia le torsioni esistenziali ed esistenzialistiche e il senso di una Parola poetica che -vedi per es. Ungaretti- tutto potesse e dovesse contenere.
Con le nuove generazioni, l’espressione si lega al lessico in una maniera spontanea e naturale, tanto che ogni termine indica esattamente quello che rappresenta, pur nella forma della metafora e dell’allusione, tipica della poesia.
Ci troviamo così al cospetto di una ventata originale che si va ampliando, ma che non deve essere confusa con un’arte poetica d’improvvisazione. Fare poesia per i nostri, significa piuttosto filtrare la propria esperienza per innalzarla al livello dell’arte, partendo da un dato privato, nel proprio itinerario di crescita e maturazione.
Nella silloge in esame, scritta a quattro mani, notiamo innanzi tutto il lavoro che ha anticipato la scrittura e ha permesso ai due poeti di convergere verso basi condivise, al punto che non si apprezzano dissonanze nell’argomento optato, nella scelta prosodica e metrica - in questo caso, la strofe è costituita da una quartina- nel ritmo sempre quieto e nell’uso senza parsimonia della metafora.
Ci sembra di leggere, quindi, un unico canto, una sorta di poemetto o cantico d’amore, particolarmente unitario nel contenuto e negli intenti, in quanto, ripeto, il cammino ritmico-emotivo-linguistico è stato preceduto dalla confluenza sugli stessi punti metrico-stilistici oltre che contenutistici e psicologici.
Incentrato sul sentimento d’amore, entrambi gli autori declinano l’argomento in varie accezioni, dipanandolo in allegorie originali, che non cadono nello stucchevole.
E si sa quanto è insidiosa la poesia d’amore, sia per gli illustri precedenti sia per la trappola dello sdolcinato e del luogo comune.
I nostri schivano l’insidia e segnano le pagine di un buon equilibrio, evitando i due poli opposti dello svenevole e dell’erotico.
L’amore cantato è ricco dei suoi significati: il dolore per la lontananza, gli inganni, i tradimenti e così via. Dunque, non manca l’amore carnale, ma credo che il senso profondo della silloge sia soprattutto il tentativo riuscito di definire l’amore come il sentimento che giunge alla radice della propria natura, dove si riversa in trasparenza quello che si è. E, difatti, il messaggio che sembra trapelare è abbastanza netto: solo attraverso l’amore si raggiunge consapevolezza di sé e si tocca la completezza. In questo senso il luogo degli amanti è anche luogo di fusione, in un crogiuolo che faccia argine alla difficoltà.
Io mistero alla gente che mi guarda, scrive Moica, mentre confonde le sue emozioni e i suoi confini con un altro essere.
Rita Pacilio in controcanto:
Dammi la mano per posare l’altra/ fissa il sistema solare ad est/ lascia che il sole sia sempre nuovo. / Non sia mai notte!
Il dolore in agguato è sopportabile portandone il peso in due e l’indugio in attesa dell’amato è momento di pace quando si sa che il desiderio non andrà deluso. In un contrappunto continuo, i due poeti si cercano e si definiscono attraverso un tu, spesso invocante l’altro dalla propria lontananza e solitudine.
Si diceva che si tratta anche di amore di carne, ma la sensualità palesata è delicata, anzi sono più frequenti gli intrecci con la spiritualità, con regolari accenni al divino. Il confidare nella sfera del sovrasensibile si manifesta in un ricco vocabolario del sacro: Dio, altare, banchi della chiesa, paradiso, cattedrale, magnificat, Cristo….
Si coglie nella silloge una sorta di armonia tra il mondo della materia e quello dello spirito, con le creature ripiegate su stesse, che attraverso l’amore ritrovano la propria ricchezza interiore e la propria posizione nel cosmo.
E voglio terminare proprio con una quartina che dichiara la serenità della Pacilio nell’accettare la propria terrena condizione, esplicata in preghiera che implica la lode, il ringraziamento e l’omaggio dell’essere al suo Creatore:
Là fuori c’è il mare. / Tutte le cose restano uguali / e mi basta il crepuscolo chiaro / mentre l’altare diventa preghiera. (R.P.)

Fortuna Della Porta


Recensione - Pacilio su Moica 'Angoli nascosti' - Poesia - Briciole di te



E mi accorgo che gli occhi
sono briciole cadute da te
mischiate a spezie dimenticate
mentre scorrono il resto delle ore.


Quando eri corpo nel mio
coltivavi petali di momenti
senza che le parole nascessero
abbandonate nel giardino solitario.


In questa vita sbagliata
sei il nome che conosco
e non rinuncio a pronunciarlo
nelle storie raccontate all’alba.


Ora che sei luce nelle stanze
sfiori il mio rosario abbandonato.
Ho smarrito la preghiera del  respiro
e i giorni di febbraio vivono nel sogno.


Un unico pianto
mentre i passi diventano cenere
le mie mani inchiodate al palo
voglio il dolore ricordo del tuo bene.

BRICIOLE DI TE di Claudio Moica. © Tutti i diritti riservati.



Commento poetico di Rita Pacilio
su 'Angoli nascosti' Il Filo di Claudio Moica


Il lettore di fronte ad una pagina elabora un peculiare metodo di trasformazione in fiction delle proprie esperienze personali e al di là delle scelte stilistiche e narrative di volta in volta cercate e sperimentate, trova un modello psicologico di reinvestimento affettivo basato su una ricombinazione relazionale che lo trasforma sia a livello corporeo che a livello comportamentale.
E' importante il confronto con il 'libro'.
Il Poeta ha la potenza di sfidare, insistere. Propone in modo consapevole il suo 'vedere'. Il Poeta guarda il mondo e lo celebra.
L'ispirazione nasce sempre da un contatto, da un incontro, da un sorriso o da una lacrima. E l'emozione deve essere lasciata libera di andare perchè nulla ci appartiene e tutto ci è donato.
Belle le descrizioni esistenziali e sociali! Liriche che mettono in discussione la crisi dei ruoli. Tracciano emozioni alla frontiera di noi stessi. I particolari non sono invadenti, rumorosi o aggressivi. Il lettore legge la quotidianità, il momento in cui si ritrova. Una cifra elegante e accattivante. ‘Immergiti/ senza respiro…/

Succede ancora.
.
Un particolare rilievo hanno in questi versi le forti emozioni intese come "formidabili catalizzatori del mutamento sociale" e come vettori di reintegrazione del Sé.
Mi sembrava di rileggere qualcosa di Ballard.... Prendersi una pausa da tutto.

Assaporare la bellezza e il flusso dei nostri pensieri. Il camminare lento delle nostre pulsioni amorose. L'intuizione e ogni emozione. ‘Il mio volo/senza verso/…’
La malinconica consapevolezza del mutamento del mondo. L'irrimediabile deteriorarsi delle cose come una minaccia, una apocalittica atmosfera che imprigiona il 'progetto' universale. Ed il poeta è il filtro. ‘Ascendi negli angoli del cuore’
L’Autore ha la necessità di chiudersi in se stesso e nello stesso tempo di aprirsi al mondo. E di 'sentire' le azioni degli uomini concedendosi il permesso di esprimerle. E' a luci spente che emerge l'essenza vera e intima che include le parti taciute, negate, nascoste ma fortemente autentiche. …’di noi/ che giocavamo alla vita…’
Mi porti dove si quietano e rinascono tormenti.....dove i silenzi crescono nel vuoto. Precisi come i sentieri tracciati. ‘ Disteso tra i filari dell’uliveto/aspetto il giorno/profetico ricordo di pace’

L'armonia spesso non è nelle cose che appaiono.....l'abitudine ci fa perdere molte opportunità mentre la presenza di qualcuno è in grado di cambiare il corso di un'esistenza. E i codici della società o del destino a volte sono imposti......e noi? Neppure siamo in grado di modificarci al meglio. Restiamo lì a guadare.

Rassegna stampa - 12 aprile 2011

Categoria: Cultura&Spettacolo
Venerdì 15 aprile, libreria Fiorentino
"Rendimi altare", i versi di Angela Ragusa
Venerdì 15 aprile, alle ore 17.30, presso la libreria Fiorentino di Benevento, si terrà la presentazione di ‘Rendimi Altare’ di Angela Ragusa.
La raccolta dei versi, edita da ‘LietoColle’, approda nel capoluogo sannita dopo la tappa casertana di Casoria.
All’incontro interverranno, oltre all’autrice, Rita Pacilio (per LietoColle’) e Filippo Marinelli. La lettura dei versi sarà accompagnata dalla chitarra classica del musicista Roberto Melisi. Sarà inoltre proiettato un video realizzato dal giovane Alessandro Odierna dove le immagini realizzate si sposano pienamente ai versi.
L’autrice siciliana ormai sannita nell’animo, con la sua opera prima, suddivisa in due parti, svela la sua poesia delicata e intrisa di una dolce malinconia che ne permea i versi. In un viaggio poetico breve ma intenso (le sue poesie sono quasi sempre ‘istantanee’ di vita ed emozioni) Angela Ragusa descrive se stessa, i moti di un animo complesso e vivo, la dolcezza e la profondità dell’amore, la nostalgia del tempo che passa, la volontà di non lasciare che trascorra invano.

Poesia - L'AMORE

Che grande scultore sei tu
che hai scolpito il tuo volto di pietra
tra le mie braccia
e ormai amore morto
mi sei diventato figlio
ti tengo sulle ginocchia
e piango perché il ricordo di te
mi pesa come un sepolcro.


ALDA MERINI