Gli imperfetti sono gente bizzarra
di Rita Pacilio - La Vita Felice 2012
VOLUME DISPONIBILE PER META' NOVEMBRE
Poche opere di poesia mi hanno colpito
recentemente come questa raccolta di Rita Pacilio. Un dolente e
splendente diario, personalissimo, dove la forza dei versi fila, tesse e
spacca la mormorazione in cui pure restano raccolti, pronunciati da
quel luogo inespugnabile che è lo spazio dell’essere sorella. «La
prigione di mio fratello/ ha le finestre sorde».
E allora la sorella-poesia accetta di
farsi finestra e specchio, voce, canto nel mormorio. Grazie a lei
vediamo il lago «mordere nuvole». E «l’azzurro elementare». E vediamo
che «I folli hanno labbra di rosa vermiglio/ ginocchia conficcate nella
gola».
Il libro è visionario e intimo, ma in
forza di una speciale qualità di composizione e di concentrazione, evita
tutti i rischi che si incontrano in un corpo a corpo così stretto con
l’abisso. Voglio dire i rischi del ripararsi, del coprirsi dietro la
letteratura, i luoghi comuni, lo stereotipo. Ci vogliono molti anni di
consuetudine con tale corpo a corpo. Molti anni di buio e di una
concentrazione che ha la stessa dismisura dell’abbandono per vedere «il
falco pallido sul collo»; in «loro quella composta di cose». Ci vuole
una consuetudine disarmata, casta, povera, che abbia visitato le ombre
senza innalzare il maledetto occhio dell’osservatore, quel patetico
punto di vista con cui ci hanno ammorbato – a riguardo di questi luoghi
di custodia dell’incustodibile – persino canzoni portate a Sanremo o
mielose scritture. No, qui, la voce di Rita Pacilio viene da un luogo
intimo e indifeso. La poesia-sorella non osserva, è una destinazione
comune, un luogo carne sangue comuni e indivisibili. Un amore che è
conoscenza. L’osservatore è in un luogo altro rispetto al gorgo, alla
pena, la sorella no. La sorella, lei sola conosce. Il che non vale come
salutare scandalo solo a riguardo di quanto accade e muto grida in
queste pagine, ma per tutto, per ogni dove in un’epoca a cui stanno
crollando addosso tutte le presunzioni di “conoscenza obiettiva”, di
ragione senza affezione, di razionalismo senza fuoco. L’attraversamento
duro di Rita Pacilio non offre il suo valore appena in riferimento alla
vicenda che qui tocca e la riguarda, ma indica qualcosa che oggi investe
ogni campo della vasta crisi della conoscenza, troppo spesso isterilita
in falsi obiettivismi, tradotti infine in soffocanti burocrazie, o in
minuetti senza pathos. Il libro è un viaggio di conoscenza, non un
affresco patetico. Sia detto non solo per rispetto al lavoro della
poetessa e agli abitanti delle stanze che ha attraversato, ma della
poesia intera, attuale e passata, che in prove come questa trova
conferma e rilancio della sua vocazione: poetare e conoscere sono lo
stesso movimento. E qui la poetessa si è disposta – a quale costo – a un
viaggio di conoscenza del pianeta sperduto e vicinissimo...
Rita Pacilio mostra in questo libro una
qualità di misura e di potenza emblematica che la accosta ad alcune voci
della migliore poesia italiana. Penso a De Angelis certo, di cui
condivide taluni scarti, ma anche più precipuamente a voci di poesia
femminili come Francesca Serragnoli o Franca Mancinelli.
Il tema che lei attraversa con la
speciale veste sacrificale di sorella è di inesauribile vastità. Si
prendano per bussola i saggi di Eugenio Borgna. Ma il punto in cui si
colloca quest’opera è speciale, ha un posto speciale nella infinta rete
di rimandi possibili tra studi sul rapporto tra arte e disagio mentale,
da un lato, e dall’altro tra opere, figure e poesie direttamente
dedicate all’argomento, anche recenti. E se dunque si vorrà cercare un
altro gruppo di pagine a cui accostare queste, per luminosa
impenetrabilità, per rispettosa forza e arrendevolezza, si dovranno
aprire le lettere di Paul Claudel alla sorella Camille. Anche là
bruciava inintelligibile una fraternità scossa, devastata e pur
incrollabile. E una forza delle parole, una loro sorprendente poesia,
ancora, e ancora, e ancora. Perché la parola che scava l’abisso è il
primo segno di una luce possibile.
«Nel dubbio serrano le palpebre per ritrovare la notte, per non perderla».
dalla prefazione di Davide Rondoni
Si increspa il lago di Nemi
in un gesto di doloroso silenzio
a vederlo mordere nuvole
l’affanno arriverebbe in cima.
Salgono visitatori
in una strada scoperta riaffiorano
in mezzo alle piante
ragazze di colore nude a metà
pascolano paure
e cosce raggelate. E fissano
l’inquieta luce della sera
come fosse un contatto.
Chiedo perdono al mondo/ come lo chiedo a te/ per il mio
peregrinare stanco/ per l’urlo muto/ per la corsa che mi affanna e
dice./ Il destino è un cerchio senza fine.
***
Verso nord-ovest aumenta la scogliera
si arrampicano le acque
dove si posa la clemenza
le alghe consegnano umori tra dita.
Convulsi baci a pieni polmoni
all’abisso che rimane tra i denti.
I folli hanno labbra di rosa vermiglio
ginocchia conficcate nella gola
quelli del primo piano chiedono l’ora
collezionano dossi per l’inverno.
Scrivono sui marmi con il trucco
e sbavano meduse sul mento
quelli del secondo piano tremano
il morbo che cresce nell’addio.
***
La prigione di mio fratello
ha le finestre sorde
esala l’anima ancora sbalordita
dalla paura del lampo
suoni di saluti nella campana
a morte
e sul collo il respiro che non vuole finire.
L’ecatombe ogni notte si maschera
impaziente il mormorio nei reparti
è illecito l’omaggio agli dei
si arriva sempre presto sottovento
menzogne e sacrilegi nascosti.
La prigione di mio fratello
è oracolo timido
probabile occhio spia
una pietra desolata
nella recinzione gli uccelli dormono
di là
nessuna barca esiste più.
***
È un morso prudente l’oscurità
un disegno fatto di assenze.
Si denuda l’incavo della spalla
svuotato dalla mano
come un gheriglio
una lumaca.
Amore mio io sono questa:
la bellezza del circo,
la colpa di aver gridato
nel tuo gambo mendicante.
O forse
l’inquieto participio
e l’ora scandita del risveglio.
Non capirò mai niente del nome della sera
dei lampioni spogliati come donne
e di te che ti sfaldi sul muro di casa.
Mad Parade 12, fotografia di Stefano Bonazzi, per gentile concessione
Rita Pacilio è nata a Benevento. Sociologa, si occupa di poesia e di
musica jazz, di Orientamento e Formazione, di Mediazione familiare e dei
conflitti interpersonali, di Prevenzione delle dipendenze.
Per le sue opere, ha ricevuto numerosi riconoscimenti della critica di settore.
Pubblicazioni di poesia:
Luna, stelle… e altri pezzi di cielo (Edizioni Scientifiche Italiane, 2003);
Tu che mi nutri di Amore Immenso - silloge sacra – (Nicola Calabria Editore, 2005);
Nessuno sa che l’urlo arriva al mare (Nicola Calabria Editore, 2005);
Ciliegio Forestiero (LietoColle, 2006);
Tra sbarre di tulipani (LietoColle, 2008)
Alle lumache di aprile (LietoColle, 2010);
Di ala in ala (con C. Moica – dialogo poetico) LietoColle, 2011).
Narrativa:
Non camminare scalzo (Edilet Edilazio Letteraria, 2012).
Nell’agosto 2006 l’autrice presenta al grande pubblico il progetto “Parole e musica” –
Jazz in versi: contaminazioni.
Discografia:
‘Infedele’ Splasc(h)Records
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