I BIZZARRI IMPERFETTI
Sulla bizzarria dell’imperfezione umana,
improvvisa, si apre una veduta, simile all’effetto di un ciottolo
tonfato in uno specchio d’acqua ferma che ne plasma la superficie con
uno stiramento progressivo di concavità estenuante finché la forma
liquida, come un cielo elastico, plasticamente si richiude per
ricoprirne l’esistenza, nascondendone l’evento e ristabilendo
l’equilibrio turbato.
È questo che accade leggendo la silloge di Rita Pacilio: “Gli imperfetti sono gente bizzarra”.
Una proposta che modella la poesia su un
tema ostico, spigoloso, privo di insenature rassicuranti; un percorso
che misura l’inconsueta organizzazione di un non luogo dove vengono
confinati gli imperfetti, concentrati in una bolla di vita che non pulsa
ai ritmi cui siamo soliti riferirci. È la descrizione del ghetto della
diversità, del rifiuto a integrare la difformità nel flusso della
quotidianità dei “normali”.
Sono queste le prime evidenze a cui Rita
ci rimanda: folle tra i folli, tramite la follia altrui ci narra della
sua, con l’intelligenza che distoglie da sé l’attenzione per portarla là
dove occorre riflettere intensamente. È un bel binario che si offre in
lettura, interrogazioni con un ordito sociale che hanno una trama
individuale. La trama di una sensibilità che coglie le ragioni o lo
stato del diverso dopo aver colto le proprie diversità e le proprie
ragioni inconfessate, frutto di chissà quali profondi disagi subiti.
Avverto quasi una continuità con “Non camminare scalzo”, narrazione
romanzata in cui l’autrice si è sperimentata come scrittrice su temi che
qui ritrovano una più densa modalità espressiva, che oltre il ritorno
alla forma poetica si avvale di un potente mimetismo con passaggi dal
“sé” all’“altrui” che arrivano diretti al nocciolo del tema presentato.
In ogni verso viene confermata la
descrizione meticolosa della condizione di diversità a cui, per
comodità, attribuiamo il termine follia; l’accurata descrizione passa
per la folle sagacia con cui l’autrice ne scarnifica l’essenza,
privandola di inutili orpelli che più facilmente la rendono accettabile.
Il luogo della perdizione e del ritrovo
ha una sua geografia di rimando usata come cornice alla narrazione,
centro intorno a cui gravita la catapulta dei pensieri: «Il posto più lontano della solitudine…la composta delle cose».
È il posto delle fragole, uno specchio
d’acqua vulcanica che ha sopito il fuoco, il cono tronco incoronato dal
bosco sacro di Artemide, una selva di querce e di lecci che ha il lago
come epicentro, il Sacro Specchio di Diana Nemorensis, dea delle foreste
e della natura selvaggia, regno perduto in cui la selvaggina appare
sostituita dalla popolazione degli imperfetti da lucus a silva, «dietro i vetri nessuno suona flauti… la prigione di mio fratello/ è oracolo timido».
È questa emersione parentale un altro
degli indizi che dà il senso della silloge, il carico da sostenere
dell’esistenza avversa, il vincolo di sangue che stringe al tormento del
ruolo mutato di chi assolve alla cura dell’esistenza altrui: «Noi dispiaciuti li guardiamo enigma senza soluzione».
Con questo nuovo lavoro Rita ci regala
un punto di approdo più alto nel suo percorso poetico, ormai giunto ad
una maturità palpabile, strutturato con quartine sempre più accorte, ed
una cura al lessico e alle figure retoriche che supera le più rosee
aspettative. Conferma progressiva di una voce e di una scrittura
autentica e potente, che si presenta sempre innovativa con
sperimentazioni e temi che fanno della singolarità una delle cifre
distintive della sua poesia.
Dicembre 2012
Salvatore Contessini
http://www.lavitafelice.it/news-recensioni-s-contessini-per-r-pacilio-939.html
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