Dal limite della parola –
Fernanda Ferraresso su “Gli imperfetti sono gente bizzarra”
Julie Massy
.
Salto il
risvolto, le alette, salto il risguardo, salto la prefazione. Ormai tutti i
libri hanno una prefazione, come se ciò che sta scritto all’interno fosse
orfano e abbisognasse di un padre o una madre. Personalmente passo per la
prefazione ( che in me suona appunto come la parola brefotrofio) solo nel
caso di oscurità totale, di labirinto dell’ascolto, di scollamento tra
senso e scrittura, in assenza di vento, non dico di chiavi. Dunque: entro.
Attraverso lenta la soglia. Dal limite della parola ascolto perché non trovo una epigrafe ma una dedica. Ad Alfonso, tra parentesi, come se quella fosse una porta accanto alla quale, appunto, si ascolta.
Le parole sono gratuite, mi dico, come il vento, e l’oralità ci appropria di qualcosa che viene da altri mondi, altri luoghi come appunto riesce a fare il vento. Lei, Rita, semina nella mia testa l’idea secondo cui la realtà non è solo come appare in superficie ma come la si percepisce all’interno di una dimensione che cambia, come nella magica trascrizione di una musica, ed è legittimo o possibile esagerarla e colorirla addirittura “inventarla“, per rendere meno circoscritto il passaggio o il paesaggio attraversato in questa vita. Nemmeno la morte esiste in questo addomesticamento, poichè la ricuciamo con il nastro della vita attraverso la parola e lì, dentro, le persone rinascono tutte le volte che noi le richiamiamo a noi, senza che tutto scompaia in una nebbia fitta e densa, l’assenza appunto, il punto di fuga illegittimo in cui il punto resta nel disegno senza più alcun segno. La realtà è una materia che si addensa dentro i nostri sensi e mostra ai nostri occhi ciò che qualcosa ci segnala da lontano, in una terra che forse è quella da cui tutta la nostra vita ha preso inizio. Ecco, credo che Rita Pacilio abbia attinto da lì, colori e suoni, nomi e luoghi, come scene di un continuo paese che va affrescando di attimo in attimo dentro le sue stanze e, di tanto in tanto, un colpo di luce ne accende un frammento per chi passa. Sono certa che per questo la percezione sia variabile, che nessuno la raggiunga e soprattutto nessuno legga alla stessa maniera l’impressione diversa delle cose, i colori, i suoni che lei ha sentito premerle il corpo ridisegnandolo, ricomponendolo, non solo lo scritto, come se tutto, proprio tutto, non fosse mai stato un luogo definitivo, rinchiuso da un segno, ma un circo o un circolo in cui ci è dato di vivere in assoluta solitudine la trapezia parola acrobata, che volteggia nella tenda della vita, sorretta da un lunghissimo argano che si pianta lontano, alle origini o ai confini con la morte, che così non è dolorosa e aspra, né irta ma bene detta e bene detto è il tempo che ne nasce, lungo, avvoltolato su se stesso, come un fazzoletto di pizzo che si mostra senza vanità ma inscritte filo per filo ha le storie di noi tutti.
Storie d’ogni genere, che prendono vita appena si appoggia un piede per terra o si allarga la bocca in un sospiro, senza linguaggio appunto, come un lago quando s’increspa e la sua sostanza è il linguaggio prima che qualcuno lo descriva, prima di essere un’immagine sono la tangibile reminescenza di qualcosa che si approssima da dentro, non dagli occhi, come abbiamo l’abitudine di credere, non da quel fuori consueto perché tutto vive sempre in quel preciso attimo in cui c’è riconoscimento. Nascoste non sono nemmeno le ombre, fitte di segni più scuri della memoria, sono molecole di organismi viventi, radici, o rami e si aprono esorcizzando in greti variabili i demoni di un ricordo che si racconta, dentro i cunicoli di una parola. E tornano non una ma mille volte…
Attraverso lenta la soglia. Dal limite della parola ascolto perché non trovo una epigrafe ma una dedica. Ad Alfonso, tra parentesi, come se quella fosse una porta accanto alla quale, appunto, si ascolta.
Le parole sono gratuite, mi dico, come il vento, e l’oralità ci appropria di qualcosa che viene da altri mondi, altri luoghi come appunto riesce a fare il vento. Lei, Rita, semina nella mia testa l’idea secondo cui la realtà non è solo come appare in superficie ma come la si percepisce all’interno di una dimensione che cambia, come nella magica trascrizione di una musica, ed è legittimo o possibile esagerarla e colorirla addirittura “inventarla“, per rendere meno circoscritto il passaggio o il paesaggio attraversato in questa vita. Nemmeno la morte esiste in questo addomesticamento, poichè la ricuciamo con il nastro della vita attraverso la parola e lì, dentro, le persone rinascono tutte le volte che noi le richiamiamo a noi, senza che tutto scompaia in una nebbia fitta e densa, l’assenza appunto, il punto di fuga illegittimo in cui il punto resta nel disegno senza più alcun segno. La realtà è una materia che si addensa dentro i nostri sensi e mostra ai nostri occhi ciò che qualcosa ci segnala da lontano, in una terra che forse è quella da cui tutta la nostra vita ha preso inizio. Ecco, credo che Rita Pacilio abbia attinto da lì, colori e suoni, nomi e luoghi, come scene di un continuo paese che va affrescando di attimo in attimo dentro le sue stanze e, di tanto in tanto, un colpo di luce ne accende un frammento per chi passa. Sono certa che per questo la percezione sia variabile, che nessuno la raggiunga e soprattutto nessuno legga alla stessa maniera l’impressione diversa delle cose, i colori, i suoni che lei ha sentito premerle il corpo ridisegnandolo, ricomponendolo, non solo lo scritto, come se tutto, proprio tutto, non fosse mai stato un luogo definitivo, rinchiuso da un segno, ma un circo o un circolo in cui ci è dato di vivere in assoluta solitudine la trapezia parola acrobata, che volteggia nella tenda della vita, sorretta da un lunghissimo argano che si pianta lontano, alle origini o ai confini con la morte, che così non è dolorosa e aspra, né irta ma bene detta e bene detto è il tempo che ne nasce, lungo, avvoltolato su se stesso, come un fazzoletto di pizzo che si mostra senza vanità ma inscritte filo per filo ha le storie di noi tutti.
Storie d’ogni genere, che prendono vita appena si appoggia un piede per terra o si allarga la bocca in un sospiro, senza linguaggio appunto, come un lago quando s’increspa e la sua sostanza è il linguaggio prima che qualcuno lo descriva, prima di essere un’immagine sono la tangibile reminescenza di qualcosa che si approssima da dentro, non dagli occhi, come abbiamo l’abitudine di credere, non da quel fuori consueto perché tutto vive sempre in quel preciso attimo in cui c’è riconoscimento. Nascoste non sono nemmeno le ombre, fitte di segni più scuri della memoria, sono molecole di organismi viventi, radici, o rami e si aprono esorcizzando in greti variabili i demoni di un ricordo che si racconta, dentro i cunicoli di una parola. E tornano non una ma mille volte…
Mille volte
i canti delle magnolie
ritornano all’imbrunire
al mio respiro.
Non temono l’intreccio dei venti
né le linee curve del seno nelle nuvole.
Indugiano solo quando l’eco disperata le insegue.
ritornano all’imbrunire
al mio respiro.
Non temono l’intreccio dei venti
né le linee curve del seno nelle nuvole.
Indugiano solo quando l’eco disperata le insegue.
Eppure la
gente ha una strana bizzarria che le percorre, che tocca la loro voce più
profonda, il silenzio di sorgente in cui nel corpo stiamo immersi tutti
ed è quella, proprio quella spesso feroce, imperfetta fede nel sé,che tutto smuove,
nasce, cresce, a cui attinge la scrittrice. E’ questa la durezza e l’impervietà
del cammino, il deserto o la piana ( in)feconda che costruiamo in noi prima che
fuori e intorno.
Ero io
quella composta di cose
che ti ha intristito la vita
- il falco pallido sul collo
tradito ogni giorno -
intorpidita porto via la mano
e il cielo.
che ti ha intristito la vita
- il falco pallido sul collo
tradito ogni giorno -
intorpidita porto via la mano
e il cielo.
Gli
imperfetti sono gente bizzarra, dice Pacilio e tutto il suo lavoro rimescola la
parola dal fondo dell’ascolto, da dentro i cassetti dove la memoria, tutta la
memoria, non è diario ma diaria, qualcosa con cui ciascuno si paga con la
vita da vivere, ripristinando ore già consumate, suoni già accantonati,
composizioni e congiunzioni che spesso crediamo spaccate, lese, disarticolate.
L’intimità sta in questa gioia dolente che ci apre la carne e anche nei nomi
trova una nuova sostanza, una polpa succulenta, un miele di cui ci si nutre.
Le gabbie dei verbi, degli articoli sessuati e spesso indeterminati, la prigione consueta della nostra sdruciolevole follia di camminare in lungo e in largo lo spazio, il tempo di questo ed ogni altro mondo si fa un fondo di torrente dove le parole rimbalzano tra un sasso e l’altro del già praticato luogo e del senso, plasmandosi in corpi nuovi, al ritmo di timbri che sembrano oscuri, che si addensano per peso in stalattiti come architetture del vuoto. Alfonso, suona come al fin so, al fondo della presenza e dell’assenza di chi sulla fune di se stesso ha steso le sue sillabe maestre mostrandole ai venti e ai vinti, alla pioggia e alla polvere, sottili filigrane dei pensieri, dove la storia di ieri si addobba di dati, perifrasi, ingegnose inquadrature e squadrature dei precipizi e ha dato loro fuoco con uno stoppino minuscolo, un suono, una chiave di sol, in cui il labirinto della scrittura, enigma e anagramma del suono, proveniente dal centro del corpo, trova al suo esterno un punto su cui mirare il proprio bersaglio, l’oralità con cui si mette in movimento verso la propria altruità.
” Ho parlato al tuo corpo fraterno…” Perchè questa è la parola emessa, l’altro, non la gemella consonante. Da questo occhiello, in cui mette la chiave c’è il sol diPacilio che aggiunge e dettaglia, seziona e seleziona con misura e con forza impartendosi lezioni magistrali. Lei maestra e maestrale di se stessa.
Le gabbie dei verbi, degli articoli sessuati e spesso indeterminati, la prigione consueta della nostra sdruciolevole follia di camminare in lungo e in largo lo spazio, il tempo di questo ed ogni altro mondo si fa un fondo di torrente dove le parole rimbalzano tra un sasso e l’altro del già praticato luogo e del senso, plasmandosi in corpi nuovi, al ritmo di timbri che sembrano oscuri, che si addensano per peso in stalattiti come architetture del vuoto. Alfonso, suona come al fin so, al fondo della presenza e dell’assenza di chi sulla fune di se stesso ha steso le sue sillabe maestre mostrandole ai venti e ai vinti, alla pioggia e alla polvere, sottili filigrane dei pensieri, dove la storia di ieri si addobba di dati, perifrasi, ingegnose inquadrature e squadrature dei precipizi e ha dato loro fuoco con uno stoppino minuscolo, un suono, una chiave di sol, in cui il labirinto della scrittura, enigma e anagramma del suono, proveniente dal centro del corpo, trova al suo esterno un punto su cui mirare il proprio bersaglio, l’oralità con cui si mette in movimento verso la propria altruità.
” Ho parlato al tuo corpo fraterno…” Perchè questa è la parola emessa, l’altro, non la gemella consonante. Da questo occhiello, in cui mette la chiave c’è il sol diPacilio che aggiunge e dettaglia, seziona e seleziona con misura e con forza impartendosi lezioni magistrali. Lei maestra e maestrale di se stessa.
“La prigione
di mio fratello/ha le finestre sorde/ esala l’anima ancora sbalordita/dalla
paura del lampo/ suoni di saluti nella campana
a morte/ e sul collo il respiro che non vuole finire.”
a morte/ e sul collo il respiro che non vuole finire.”
Quel suo
dire, il mondo, l’amore, le cose, è sempre dire se stessa, ed è proprio della
parola senza suono, che poi si fa scrittura, è il fiato, il respiro, il
fuoco fratello che abita il suo corpo e da quell’interno ogni
fines-tra (fines,confine) tra tutte le cose, persino le invisibili, si fa
magicamente alito di un silenzio che si pronuncia.
“…al mio
desiderio perduto il tuo amore somiglia./…Ma non sempre sei stata con me, tu.
La memoria/m’è oscurata ancora d’averti vista giungere/e sparire. Ha parole il
tempo, come l’amore.” Così scrive P. Eluard e sembra la medesima
lezione che l’autrice ha fatto propria. In una solitudine mortale, in un
silenzio siderale quale è appunto il nostro, cerca il verso nella bocca , e le
labbra mute sono un vetro che è lente e grande rende ciò che è piccolo,
nascosto, illeggibile in cui non si specchia Rita ma tocca, attraverso il
gusto, il contatto più diretto e pericoloso, e giunge a se stessa. Lo potremmo
definire un corso, di teoria e solfeggio, o meglio ancora di composizione e
decomposizione di sé, tenuto in un luogo che si conserva versandosi
e riversandosi in acque di memoria e fiumi di vento, in una veglia quasi
incessante, in cui la parola non dorme, in cui ogni parola è viva perchè
c’è sempre ascolto.
” E’ la
caviglia che porta l’altra me/ o un tacco, un colpo lascivo/potrai inalare
muschio dai reni/ forse sono stata senza errori// nell’isolamento// Correre
case di legno nella testa/ udire l’ora tarda se dormi gli occhi/ ogni
fuoco è un facile inganno/ chimera negli spazi del conflitto// per te che sposi
ora// l’alba riposata sulle alluvioni./ Gira fiato nell’onda di parti maturi/se
nasci nuovamente giovinezza/senza le rughe mi farai l’amore//come un ragno.”
Ma anche la
natura non è solo ciò che sta fuori ma il suo corpo morde e muove.
“Si increspa
il lago di Nemi/ in un gesto di doloroso silenzio/a vederlo mordere
nuvole/l’affanno arriverebbe in cima./Salgono visitatori/in una strada scoperta
riaffiorano/in mezzo alle piante/ragazze di colore nude a metà/pascolano
paure/e cosce raggelate. E fissano/l’inquieta luce della sera/come fosse un
contatto.
E aggiunge ,
al fondo della pagina, come fosse il piede che la tiene, ancora due righe
:
“Chiedo
perdono al mondo/ come lo chiedo a te/ per il mio peregrinare stanco/ per
l’urlo muto/ per la corsa che mi affanna e dice./ Il destino è un cerchio senza
fine.”
fernanda ferraresso -novembre 2012
Julie Massy
.
Da Gli
imperfetti sono gente bizzarra- Rita Pacilio
La prigione
di mio fratello
ha le finestre sorde
esala l’anima ancora sbalordita
dalla paura del lampo
suoni di saluti nella campana
a morte
e sul collo il respiro che non vuole finire.
ha le finestre sorde
esala l’anima ancora sbalordita
dalla paura del lampo
suoni di saluti nella campana
a morte
e sul collo il respiro che non vuole finire.
L’ecatombe
ogni notte si maschera
impaziente il mormorio nei reparti
è illecito l’omaggio agli dei
si arriva sempre presto sottovento
menzogne e sacrilegi nascosti.
impaziente il mormorio nei reparti
è illecito l’omaggio agli dei
si arriva sempre presto sottovento
menzogne e sacrilegi nascosti.
La prigione
di mio fratello
è oracolo timido
probabile occhio spia
una pietra desolata
nella recinzione gli uccelli dormono
di là
nessuna barca esiste più.
è oracolo timido
probabile occhio spia
una pietra desolata
nella recinzione gli uccelli dormono
di là
nessuna barca esiste più.
*
È un morso
prudente l’oscurità
un disegno fatto di assenze.
Si denuda l’incavo della spalla
svuotato dalla mano
come un gheriglio
una lumaca.
Amore mio io sono questa:
la bellezza del circo,
la colpa di aver gridato
nel tuo gambo mendicante.
O forse
l’inquieto participio
e l’ora scandita del risveglio.
Non capirò mai niente del nome della sera
dei lampioni spogliati come donne
e di te che ti sfaldi sul muro di casa.
un disegno fatto di assenze.
Si denuda l’incavo della spalla
svuotato dalla mano
come un gheriglio
una lumaca.
Amore mio io sono questa:
la bellezza del circo,
la colpa di aver gridato
nel tuo gambo mendicante.
O forse
l’inquieto participio
e l’ora scandita del risveglio.
Non capirò mai niente del nome della sera
dei lampioni spogliati come donne
e di te che ti sfaldi sul muro di casa.
**
Rita Pacilio, Gli imperfetti sono gente bizzarra- La
Vita Felice Editore 2012
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