Sotto
l’ultima pietra
Marco
Bellini – La Vita Felice 2013
nota
di Rita Pacilio
La poesia si mette al
servizio del concreto diventando il recupero immediato degli attimi del reale
quando il poeta riesce a cogliere il senso dell’esistenza con naturalezza, quasi
innocente, consacrando la memoria popolare, l’appartenenza al mondo. La bontà
poetica di Marco Bellini in Sotto
l’ultima pietra, LVF 2013, emerge nella spiritualità delle mappe
geografiche, nell’oggettività dei vissuti temporali, nel ritmo interno ed
esterno alle cose che trascorrono fino all’inconoscibile e inafferrabile
mistero della morte. La padronanza del verso libero e dell’utilizzo di singoli
segmenti fluidi, apparentemente semplici, costruiti seguendo una metrica sciolta,
spesso sincopati, non ci portano verso un destino prestabilito del verso, ma ci
inducono a cercare un istinto di significato stilistico elegante e curatissimo
fino al suo dettaglio più sperimentale/colloquiale/lirico. Bellini invita i
lettori a fare un percorso intuitivo, geografico, geometrico, identitario e, a
volte, esorcizzante: un valicare flessibile, paradossalmente introspettivo,
adempiendo una scoperta di ordine mentale nelle realtà umane e territoriali
alternate da tematiche narrate in immagini e racconti di culture vicine e
lontane che si collegano con l’esistenza più vasta e profonda dell’intero
universo. I significati arcani dei luoghi, le antiche saggezze delle donne che si
riconoscono in un ruolo di subordinazione, l’intolleranza sociale, la morte e i
suoi inganni si concentrano in un dire poetico moderno che può somigliare, non
solo per il variare tematico, alla poesia filosofica perché, abile al canto, è capace
di educare, e, intenzionalmente, è dotata di complessa autocoscienza con una funzione analogica, fondativa e discorsiva. La
poesia si piega, così, al compito della conoscenza, la approfondisce, rinnova
il suo sguardo su se stessa e si rende disponibile all’approdo dell’esperienza
dell’istante rigenerato. La latitudine geografico/semantica è funzionale alla visione
della parola poetica come profondità della realtà che accompagna il lettore
verso la verticalità del parossismo dialettico caratterizzato da sguardi
affidati sia a fragilità umane innestate nelle culture dei contesti, sia a
incursioni di alibi e sottintesi che possono riformulare le ricognizioni dei
paesaggi circostanti dal mutare delle proprie parvenze. Il tempo diventa un
incipit, un punto da cui ripartire, un gioco d’infanzia, una sistemazione
ambientale in cui è possibile approfondire e denominare, in forma retroattiva,
l’umanità contaminata dalle azioni discontinue e intossicate dai comportamenti
amorali pregressi. Bellini osserva, narra e ricuce percorrendo località
prossime al fiume Adda: propone con il suo tracciato letterario-zonale un riattraversamento
delle esperienze concrete degli spazi, lì dove le vicissitudini umane non
vengono visitate come reliquie, ma come humus intellettualmente utile e sempre
fecondo da suggerire come lezione storico/filosofica che può dettare suggerimenti
e moniti. Bellini scava nel corpo materico dell’intero cosmo, fino all’ultima
pietra, rimettendo in circolazione più realtà sopravvissute ai luoghi, più
ideologie, più voci per resistere all’amplificazione dei codici che traducono
l’estrema metafora dell’ignoto che coincide con quell’immobile puntino di luce al centro dell’universo dove ogni cosa
si incontra e ogni cosa si interseca verso l’altra sponda del fiume (Charles Wright).
Poesie
dalla sezione SEGUENDO L'ACQUA (L'Adda)
La radice
Nelle valli che guardano Bormio
la nascita dalla morte dei ghiacci
come il predatore dalla preda.
I rumori dei millenni sciolgono gli spigoli,
i gocciolii muovono le pietre, si scoprono i fossili.
Finisce un tempo solido, il primo rigagnolo
tra i muschi e il filo spinato di una guerra
cerca un solco; ne farà un letto.
L’ombra del muso, sopra si muove un camoscio.
Da lì si stacca verso paesi appoggiati
luci gialle, pentole e tinozze per i giorni.
Saranno trecentotredici chilometri.
Nelle valli che guardano Bormio
la nascita dalla morte dei ghiacci
come il predatore dalla preda.
I rumori dei millenni sciolgono gli spigoli,
i gocciolii muovono le pietre, si scoprono i fossili.
Finisce un tempo solido, il primo rigagnolo
tra i muschi e il filo spinato di una guerra
cerca un solco; ne farà un letto.
L’ombra del muso, sopra si muove un camoscio.
Da lì si stacca verso paesi appoggiati
luci gialle, pentole e tinozze per i giorni.
Saranno trecentotredici chilometri.
Scomposto il braccio
Il lago portò un corpo, una restituzione
incerta, una confessione tra le barche
a riposo. Scomposto, il braccio piegato
a indicare le case di Pescarenico, il lavatoio
le mani di donne chinate e il sapone
a levare i sogni, le bottiglie d’acqua
appena discoste dalle porte, così
per la distanza dei gatti. La somma del tempo
in quella carne faceva ventidue anni
il nome non si leggeva.
Domani ne avrebbero parlato
se non c’era altro.
dalla sezione SOTTO L'ULTIMA PIETRAIl lago portò un corpo, una restituzione
incerta, una confessione tra le barche
a riposo. Scomposto, il braccio piegato
a indicare le case di Pescarenico, il lavatoio
le mani di donne chinate e il sapone
a levare i sogni, le bottiglie d’acqua
appena discoste dalle porte, così
per la distanza dei gatti. La somma del tempo
in quella carne faceva ventidue anni
il nome non si leggeva.
Domani ne avrebbero parlato
se non c’era altro.
Le dita sulla rete
(Un campo profughi nel terzo millennio)
Alle spalle, fermate con i sassi lungo linee regolari, le tende;
sotto: la terra sbagliata, quella che nessuno chiama casa.
Stanno in piedi, lo sporco dietro le orecchie, le mosche
sulle pieghe sudate; tengono le dita sulla rete, guardano
lo spazio, una linea diversa che sia una proposta.
Chissà se provano a fare il conto: la distanza dalle colline
che ogni notte si spengono e mettono a letto le cose,
una sedia, una coperta piegata di fretta. Oggetti lasciati
nell’urgenza del distacco, o forse per appartenere ancora.
Là tra i ciuffi e le rocce, si tiene la possibilità
di tutte le direzioni, un’altra luce, un ritorno. Lo sanno,
domani niente sarà più vicino e la coperta ancora perduta.
A qualcuno toccherà fermare lo sguardo, tenerlo sopra,
misurare il perimetro, la rete che tiene fuori la paura
e dentro li fa stranieri. Si dovrà mettere qualcosa al servizio:
un passo, o l’avanzo sporcato del tempo gettato. Lo sappiamo,
qualcuno dovrà guardare sotto l’ultima pietra.
(Un campo profughi nel terzo millennio)
Alle spalle, fermate con i sassi lungo linee regolari, le tende;
sotto: la terra sbagliata, quella che nessuno chiama casa.
Stanno in piedi, lo sporco dietro le orecchie, le mosche
sulle pieghe sudate; tengono le dita sulla rete, guardano
lo spazio, una linea diversa che sia una proposta.
Chissà se provano a fare il conto: la distanza dalle colline
che ogni notte si spengono e mettono a letto le cose,
una sedia, una coperta piegata di fretta. Oggetti lasciati
nell’urgenza del distacco, o forse per appartenere ancora.
Là tra i ciuffi e le rocce, si tiene la possibilità
di tutte le direzioni, un’altra luce, un ritorno. Lo sanno,
domani niente sarà più vicino e la coperta ancora perduta.
A qualcuno toccherà fermare lo sguardo, tenerlo sopra,
misurare il perimetro, la rete che tiene fuori la paura
e dentro li fa stranieri. Si dovrà mettere qualcosa al servizio:
un passo, o l’avanzo sporcato del tempo gettato. Lo sappiamo,
qualcuno dovrà guardare sotto l’ultima pietra.
dalla sezione DNA
Ti ha scelto la primavera, quei giorni
colorati nei diari, per chiudere il cassetto
e andare contromano al sole.
è il corpo che si ferma, così
l’acqua gettata che rallenta piano sul pavimento
il tegamino per il tè sull’angolo del tavolo.
Un senso che ti è venuto a noia
la voglia di non spiegare, i figli lontani
tornati prima del senso di colpa
ti guardano: «poverina».
Prima la sedia, poi il tappeto
(e se possibile ancora più giù) così accoglienti.
Basta; le briciole di pane sono interrotte
già si erano fatte rade, hai allungato la mano
toccato la terra che ti ha presa
sotto l’ultima mollica, con tutto il tuo silenzio.
dalla sezione GEOMETRIE LIQUIDEcolorati nei diari, per chiudere il cassetto
e andare contromano al sole.
è il corpo che si ferma, così
l’acqua gettata che rallenta piano sul pavimento
il tegamino per il tè sull’angolo del tavolo.
Un senso che ti è venuto a noia
la voglia di non spiegare, i figli lontani
tornati prima del senso di colpa
ti guardano: «poverina».
Prima la sedia, poi il tappeto
(e se possibile ancora più giù) così accoglienti.
Basta; le briciole di pane sono interrotte
già si erano fatte rade, hai allungato la mano
toccato la terra che ti ha presa
sotto l’ultima mollica, con tutto il tuo silenzio.
Geometrie liquide
Il mondo dentro lo specchio ha confini certi
e noi siamo fuori, andiamo cercando
le forme geometriche fissate nelle conchiglie.
Colonne di spigoli e luce il quarzo
impermeabile al tempo, il suo attraversare
l’onestà della permanenza, domani ancora lì
dove aderiscono la provenienza e la destinazione
nella stessa sabbia o roccia
a replicare la serenità dell’ombra
ad ogni interrogazione sfuggita alle nubi.
Noi dentro un atto di buio andiamo fuggendo
quel tratto del caffè, la caduta
dal beccuccio alla tazzina
quello spandersi liquido con il ventre molle
la forma di un aroma
esposto e subito perso
nella stessa sabbia o roccia.
Notizia
sull’autore
Marco Bellini nasce in Brianza, dove ancora risiede, nel 1964. Sue pubblicazioni sono: Semi di terra (LietoColle, 2007); la plaquette Attraverso la tela (2008); per le Edizioni Pulcinoelefante la poesia Le parole (2008); la plaquette E in mezzo un buio veloce (Edizioni Seregn de la memoria, 2010); Attraverso la tela (La vita felice, 2010), Sotto l'ultima pietra (La vita felice, 2013).
Sue poesie hanno ottenuto riconoscimenti in diversi concorsi e sono presenti in numerose antologie, su blog e riviste di settore.
http://www.lavitafelice.it/news-recensioni-r-pacilio-su-bellini-1063.html
http://www.lestroverso.it/?p=1717
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