Una riflessione di Floriana Coppola per la silloge “Gli imperfetti sono gente bizzarra” Poesie di Rita Pacilio
Ci sono libri e raccolte di versi che
indicano il viaggio interiore dell’uomo che a stazioni brevi affronta a
fatica per risalire alla luce, per accettare una ferita affettiva, così
intima, imparando a convivere con essa, una cicatrice che rimane sulla
pelle e brucia, presente come memoria di un legame intramontabile che
non si spezza. C’è nella relazione fraterna un laccio esistenziale
psicologico indissolubile e talvolta svela una somiglianza celata e
dolente, un incontro tra dimensioni che prescindono dalla giostra
familiare comune su cui tutti saliamo. Succede così che con alcuni
avviene un accordo maggiore, una risonanza che chiama il destino a
interrogativi più forti, a una maggiore pressione della vita, sul cuore e
sui fianchi del corpo. Come quel masso del mito che oppone forza
divergente al passo in avanti.
Chiedo perdono al mondo/ come lo
chiedo a te/ per il mio peregrinare stanco/ per l’urlo muto/per la corsa
che mi affanna e dice/ Il destino è un cerchio senza fine.
Così Rita, brano dopo brano, nella sua
affabulazione visionaria, racconta il suo doppio navigare assorto tra
tempeste difficili da domare e momenti di tregua assoluta, racconta per
immagini e metafore delicate e spinte, il suo doppio sforzo di resistere
alla vita che cerca di farti affondare nei suoi flutti. Spia
nell’inciampo dell’altro il suo cadere ossessivo nella malinconia e
trova in un eroico afflato amoroso il desiderio di portare altrove il
fratello sulle spalle, come una moderna figlia di Enea portava il padre
fuori dalle battaglie, verso la pace. Antigone ha la sua voce e vive
attraverso la tenerezza che infonde per il dolore incistato dentro la
pelle per la sorte di Polinice.
Sono loro quella composta di cose
che ha intristito la vita ai giusti/il falco pallido sul collo/costole
che non erano previste./ Loro sono lì, nel posto più lontano della
solitudine.
Nel suo poema lirico non indugia in
patetiche orme ma sforza la parola, la piega e a parlare dell’altro, con
estrema delicatezza, con un pudore che commuove. Vuole decodificare il
dolore senza facili suggestioni mistiche, senza cadere nella filosofia
dell’espiazione ma per capirlo fuori da ogni filosofia riparatrice. Il
dolore è lì che aspetta di venirti addosso, è un cappio alla gola che
bisogna guardare con visionaria lucidità.
I camici verdi gli camminano
accanto/ è una lenta collina che si muove/ lacci e aghi senza aroma/ a
febbraio che trascorre svelto….. chissà cosa sogni quando tutto tace.
Rita Pacilio allora registra con
ossessiva puntualità lirica l’avvento della pace in ogni dettaglio,
quando la natura ti viene incontro con le sue meraviglie e i suoi
stupori. La poesia indica così la segnatura di un destino, dove la
sofferenza è maestra e apre ad altre percezioni che non disdegnano il
piacere e l’eros sotterraneo che vive chi, pur conoscendo l’inquietudine
e l’inadeguatezza, riesce a intravedere delle luci e a seguirle,
prendendo per mano colui che è bendato dalla vita.
La prigione di mio fratello è
oracolo timido probabile occhio spia/ una pietra desolata/ nella
recinzione gli uccelli dormono/ di là nessuna barca esiste più…..hanno
un amore negli occhi/ un presentimento di attesa/ una polvere pronta a
sparare /una febbre.
Noi dispiaciuti li guardiamo enigma senza soluzione.
Floriana Coppola
http://www.lavitafelice.it/news-recensioni-f-coppola-per-r-pacilio-1081.html
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