Intervista - Mario Fresa intervista Rita Pacilio per l'Arca Felice (luglio 2011)




Mario Fresa intervista Rita Pacilio (http://edizionilarcafelice.blogspot.com/)

Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
Vorrei tanto che la mia scrittura subisse, nel tempo futuro che mi è concesso, una ‘spoliazione’ dell’elemento amoroso-soggettivo-temporale per meglio interpretare nel gioco espressivo dell’epos, la storia dell’uomo come particella infinitesimale dello spazio/tempo che appartiene all’universo atemporale. Vorrei, quindi, arrivare segretamente nei meandri creativi dell’umanità geniale per sorprendere la mia commozione e trovarla impreparata a me stessa.

Come nasce, in te, una poesia?
La poesia è un atto di fede, è una gioia consumata, è un richiamo di suoni multipli e multiformi. Gli echi innumerevoli dei contrasti e del rischio di fare letteratura mi hanno sempre drammaticamente portato verso un tormento che qualcuno ha definito ‘umile destino’. Spesso ho creduto che l’aspirazione a ‘fare poesia’ fosse un atteggiamento instancabile tra dialoghi contrapposti: due voci dissonanti, una egocentrica, correttrice e creativa, l’altra schiava, protettrice e instancabilmente fragile. Il mio ‘fare’ versi è una necessità che nasce da una rivolta interiore. Mi piace riportare qui di seguito il mio sentire la ‘poesia’ dentro, perché non riesco a dire diversamente:
‘Così rievocavo le identità e gli irresistibili impeti sforzandomi di consolare il disincanto dell’apparenza della mia identità e dei ruoli degli altri.
Avevo sei anni, forse meno. Cominciai senza la penna in mano. Senza fogli.
Mi apparivano i doppi fondi delle cose e ne ero in balìa: non conoscevo ancora il modo per diventarne padrona.
Ancora adesso non lo conosco.
Sapevo di essere una dissonante intuizione ma quel ‘pensiero’ nascosto mi esplorava dall’alba di ogni giorno.
Mi confortava spiazzandomi tra paradossi e aforismi.
Mi faceva male a volte, mi possedeva da uomo.
Sentivo l’ingenua e pessima traduzione dell’oltre e cresceva.
Si dilatava.
Si moltiplicava.
Gli occhi spalancati hanno guardato gli eccessi dell’interiorità e sentivo che niente mi capitava invano. La responsabilità del controllo e del crollo del mio essere ha elevato i sensi.
Ogni cosa di me era in movimento.
Mi riparavo nelle rientranze della mano ma la sporgenza delle dita mi proiettava nell’aria in modo deciso e austero.
La trasgressione è diventata portatrice dell’ansia della banalità dei luoghi comuni. Così si è tracciata una strada che percorrevo da sola e pur sapendo di cancellare ogni passo, non tornavo mai indietro.
Sfumata, fluida, flessibile, spesso irresistibile, ambigua, appariscente.
Perversa e arresa.
Umile.
Persa.
Senza scampo.
Guardare nel buco dal buco qualcosa che non sapevo di avere.
Mi intrigava il fastidio, l’imbarazzo dell’etichettamento. Mi spiazzava l’indifferenza e rimuovevo il ‘tutto è possibile’. Sapeva che ero sua schiava: mi faceva indossare il velo e poi mi spogliava di fronte allo specchio.
Abitava negli aspetti essenziali della mia identità.
Dava vita a forme autentiche di reciprocità. Sapeva che non volevo la tolleranza, ma avevo bisogno di essere rispettata e compresa.
Accolta: una virtù come una forma di passaggio simmetrica scandalosa e pudica. L’immaginario fiabesco rappresentava la mia infanzia adattata al mutamento del personaggio che ero diventata.
Lei mi modellava.
Era quasi un incesto.
E non mi sentivo colpevole se mi stavo innamorando di lei e lei di me.
Un amore sparso nelle vene del polso destro, dove solo i segreti degli amanti possono mettere in scena l’affermazione del simbolismo del piacere.
Ho soddisfatto i bisogni della dipendenza per avere in cambio le poche cose che fanno stare bene.
Ho goduto il dolore presente nel ricordare la passione passata.
Ho lasciato mi violentasse il tormento irragionevole per assaporarne la saggezza solitaria. L’ho idealizzata.
L’ho battezzata dea.
Le ho lasciato il gusto di adottarmi come figlia.
Nessuno mi ha fatto domande diverse e non ero pronta al rifiuto: così la reazione di carne ha evitato i misteri ed ha accumulato giorno dopo giorno la testimonianza delle radici future.
Qualcuno mi ha chiamata ‘piantina di vetro’. Una luce di fuoco traspare. Lei lo sa.
Ha avuto il coraggio di promettermi che mi aspetta.’ (R.P. ‘Alle lumache di aprile’ – LietoColle 2010)

Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
Credo che  tutti gli autori scrivono per somiglianza o per differenza tentando un elaborato anomalo e innovativo per commuoversi e per commuovere mettendosi alla prova, spesso, in modo tortuoso e complicato e interpretando se stessi. (http://www.lietocolle.info/it/press_poesia.html). Credo che la spinta propulsiva alla scrittura sia la disperata ricerca (come quella leopardiana) di una piena e totale e a volte inspiegabile felicità, ecco perché ogni abisso dolorante e angoscioso si trasforma in una forma espressiva, spesso impercettibile anche a chi scrive, oltre che a chi legge, che è la sostanza della poesia.

La poesia è salvazione?
Se la poesia non si limita ad essere la ‘lode delle cose perdute’ o ‘l’assillante dialettica epistemologica tra l’uomo, Dio e la natura’, allora si può affermare che ha un potere salvifico, perché diventa comunicazione tra tempo e spazio fatto dagli uomini. La poesia è la più alta creazione artistica capace di dare un senso alla speranza comunicativa come crescita sociale.

A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Ho smesso di giocare a nove anni, quando è morto il mio papà, quando il sipario della mia vita ha cambiato colore. Nei ricordi lontanissimi del ‘gioco’ trovo le mie braccia sottilissime a farsi culla per l’ultima bambola. I miei versi sono accoglienza di sensi e di anima, insieme.

Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
Confrontarmi con chi scrive poesia e di poesia è l’esperienza più significativa e formativa che abbia mai fatto. Ho imparato, attraverso l’interazione con le altre scritture, che non bisogna mai raggiungere una ‘occupazione’ ma bisogna guardare in modo fisso all’aspirazione’.

Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?
La poesia, secondo me, dovrebbe toccare la verità  universale, quindi dovrebbe tendere ad eliminare l’elemento ‘finzione’ interno a se stessa. E’ vero, chi scrive spesso si rifugia in uno spirito dialettico ricercando l’attrito tra il vissuto personale e l’espressività fonetico/metrica, ma non credo che sia indispensabile cercare l’equilibrio tra la maschera e il volto: le due realtà vitali presenti nella poesia non si oppongono, ma l’una presuppone l’altra.

Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?
Dino Campana.

Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?
A tutti i poeti in vita auguro parole nuove, agli autori di oggi, numerosissimi, consiglio di leggere i poeti e di rileggerli, prima di ambire al ‘podio’.

Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
‘Tu non puoi torturarmi con la tua incostanza,
ne va della mia vita col tuo disdegno.
’ W. Shakespeare
Questo verso ha tutta la forza dell’impotenza del genere umano di fronte alla colloquialità spezzata: la poesia è comunicazione e qui si avverte l’amarezza di una interazione respinta e la necessità universale dell’uomo di partecipare, sempre e comunque, all’altro.
 Rita Pacilio



2 commenti:

  1. Grazie Rita per le grandi emozioni che ci regali, sempre! Maria Imbriani

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  2. Grazie Maria per essere passata qui....cara tu! :)

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