Recensione - Prefazione di Adelio Rigamonti a 'Alle lumache di aprile' - Lietocolle' 2010

Prefazione



“Alle lumache d'aprile” di Rita Pacilio si presenta in due parti distinte: una ricca silloge e “Nelle mie vene un falò” un breve e serrato poemetto in terzine. La due parti sono contenute, se non addirittura trattenute, da due brevi elevate prose d'arte, che oltre a determinarne confini contenutistici ed estetici mi sembrano esaudire la funzione di una sorta di quinte entro le quali si svolge la narrazione per “dissonanti intuizioni”  del tentativo di ricucire i pezzi, “i cenci”, di una solitudine quasi senza rimedio che cerca consolazione, in molti versi addirittura identificazione passionale, sensuale e appassionata nella poesia stessa.

            Silenzi brevi... silenzi strappati
            come cenci, smarriti.
            E che nessuno sappia quando li ricucio
            alla pareti nel brusìo della preghiera.

Per tutta la raccolta Rita Pacilio sembra indicarci continuamente come la poesia possa, se non addirittura debba, essere gesto riparatore del peccato, quasi mieloso che spesso ci compiace,  che ci portiamo addietro, più o meno consapevoli, fin dalla nascita, da quel “battesimo nudo” che torna esplicitamente o implicitamente in molti suoi versi.
Solo la poesia può fornirci il lavacro salvifico (“l'acqua pia”) dalle nostre impurità, la solitudine dell'umano può affrancarsi solo nella poesia.
Nei versi di Rita Pacilio si ha spesso la sensazione di trovarci all'interno di un dialogo serrato con un “tu”, a volte asessuato, forse meglio neutro. Un tu che è quasi sempre assai facile ricondurre, dunque, alla poesia stessa, ma in questa mai si restringe o chiude anzi apre un percorso introspettivo che si dipana sul filo di, ripetendo quanto già affermato all'inizio,  di dissonanti intuizioni,  che credo siano l'indispensabile passe- par-tout per avvicinare e comprendere la poetica di Rita Pacilio.
Nel leggere “Alle lumache d'aprile” al lettore potrà apparire d'essere assalito da numerosissime quartine, che lo imbarazzeranno e lo ingabbieranno con stilemi al limite della ricercatezza con azzeccate e studiate cadute di tono,  tra lirismo e recitativo.

            Mi hanno messo le ali in petto
            per invecchiare la solitudine
            e per sbiadirne i lividi
            adesso sto sul balcone a cantare.

Rita Pacilio si muove dunque tra fughe che rasentano l'onirico e ritorni concreti al quotidiano (“adesso sto sul balcone a cantare”). Ritorni spesso liberatori più delle fughe. Magari, come nel verso citato per me assai riuscito, supportati da opportune ostinate assonanze.
I versi di Rita Pacilio sono per lo più endecasillabi forti, ritmicamente evocativi, anche nella loro impurezza metrica. Il rifiuto sistematico della sinalefe nel computo delle sillabe, con un conseguente arretramento degli accento, diventa, a mio avviso una sorta di firma stilistica dell'autrice.
Il lettore si trova immerso in un poetare che piace e compiace e che favorisce l'approdo a contenuti onirici.

            Sono una fogliolina di menta
            finita quassù tra nubi di pesci,
            che non so dirti il rombo silente.
            Le lische hanno i miei petali.

In questa quartina gradevolissimi, nei versi secondo e terzo,  sono  i giochi di parola e i rimandi di significati. Entrambi i termini dell'ossimoro “rombo silente” si riferiscono al termine “pesce” del verso precedente.
La scelta di trasmettere la propria poetica quasi esclusivamente in quartine è significativa, in quanto la quartina è la forma poetica più frequentata dalla poesia europea da sempre ed è da sempre stata considerata come l'approdo più facile all'acquisizione d'un contenuto, d'una poetica.
Una poetica, per concludere, calata in un poetare forte e sicuro sviluppato con padronanza sintattica e con una spiccata propensione armonica, che svela la seconda metà di Rita, spigliata musicista e interprete jazz.

Adelio Rigamonti


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