Riflessioni - Solitudine sociale - Spunto di riflessione: se si esce da fb si resta in un deserto? A cura di Rita Pacilio


A fare i conti con la pioggia che batte sulle ginocchia.
Uscire dal polso come un capezzolo morto.
Riempire di nuovo la mano di preghiera
davanti le linee dei gabbiani e i lamenti del mare.
Una grafica fredda nella bocca
che mi presta scarsa attenzione.
L'ultimo bacio.
La croce mi mette alla prova
e si eleva
come una strisciolina nel cielo
una spranga sulla schiena ti posi.
E nemmeno le rane nello stagno sapranno saltare.
Non si impara il ricominciare.
Le membra chiudono la porta della scena comune
i difetti sono sedentari nella stanza silenziosa.
Un sorriso mai avuto te lo dedico adesso.
Si purifica il dono, liberazione dell'ora tiranna
E lo chiama per nome, lo tocca di notte,
lui la scaraventa lontano si levano tardi le nuvole
è lei che non vuol capire la distanza.
Si illude ancora.
E lo ama.
Solo il suono della sua voce
sa ridare la forza
sa portare la brezza negli echi
sa mandare i gabbiani in estasi.
E poi il sole leviga la pelle.
R.P.


Vanda Zammuner, docente di psicologia all'Università di Padova precisa che la SOLITUDINE SOCIALE è l'essere obiettivamente soli, per contro, la solitudine emozionale, il sentirsi soli, può essere vissuta anche in compagnia. Dobbiamo rilevare che c’è chi decide di rimanere da solo e chi è costretto a restarci come per esempio un bambino che perde i propri genitori. La solitudine è ampiamente studiata dalla psicologia e dalla sociologia contemporanea che ultimamente si preoccupa di mettere a fuoco la qualità  e le variabili dei rapporti umani.
Sono numerose le difficoltà della vita per le quali gli italiani provano un profondo disagio emotivo: quelle materiali, come la disoccupazione e la precarietà economica (89%) e abitativa (80%). ma anche psicologiche, come la mancanza di qualcuno con cui confidarsi e la solitudine (80%). Il 70% ritiene infatti che negli ultimi anni nel nostro Paese la condizione di solitudine sia «dilagata». Un italiano su 4 ha provato in modo non raro l’esperienza della solitudine, mentre 3,9 milioni si sentono spesso o sempre soli: tra questi single, ultra54enni, persone con bassi redditi e con scarsa istruzione, residenti in grandi città. L’analisi dei dati locali indica che Milano è la capitale della solitudine, l’area metropolitana dove le persone si sentono più sole.’ (Corriere della sera 27 maggio 2008).
Leggevo su internet che ‘la  SOLITUDINE SOCIALE si esprime nella difficoltà a collocarsi nella società, per cui ci si sente fuori posto, non accettati e riconosciuti, o addirittura esclusi e rifiutati dagli altri’. Questa affermazione lascia spazio a considerazioni. Credo che le persone che si trovano in comunicazione sia fisica che virtuale con il mondo possano vivere realtà di equilibri instabili dove si provano incertezze e dubbi e dove è facile passare dalla speranza allo scoramento. E’ il bisogno di appartenenza, il riconoscimento della nostra identità nell’altro che ci spaventa. Il filosofo francese Jaques Deridda parla di Io ospitale, quel luogo in cui trovare ascolto e aiuto. Ma abbiamo paura di essere vulnerabili, vorremmo aprirci con tutto noi stessi senza volerci sottoporci al giudizio degli altri perché temiamo il rifiuto e la derisione delle nostre emozioni. Entra in ballo il difetto dell’autostima: siamo convinti di non essere amati. Nascondiamo la profonda insicurezza nelle nostre risorse; ferite che spesso hanno origini nell’infanzia. Quando diciamo ‘nessuno mi vuole bene’ stiamo chiedendo amore ma in termini negativi: la nostra è una domanda passiva che sfocia nel vittimismo in cui sappiamo bene che manca la reale volontà di mutare le cose. Equivale a dire che è un difetto d’amore. Spesso quando manca l’amore in famiglia, specie quando si è in età evolutiva, viene a mancare ‘il sentimento significativo che ci garantisce l’equilibrio per corazzarci contro l’indifferenza degli altri e le sconfitte che la vita ci riserva’ (Nessia Laniado terapeuta familiare che conduce seminari in Italia e in Israele).
  • Dietro alla sensazione di non essere amato o accettato socialmente può nascondersi anche un forte egocentrismo o una sorta di componente narcisistica che riversa sugli altri la colpa (Vania Crippa). Infatti ci spiega la Prof.ssa Laniado che ‘Si tratta di persone che interpretano tutto in rapporto a sé’. Per loro essere amati significa ‘essere i più amati’. A questo proposito Saccà precisa ‘ Se ricevono un rifiuto procedono per deduzione – ‘se non mi vuol bene una persona vuol dire che non mi vuol bene nessuno’ – Questa è una vera e propria protezione inconscia. Infatti è più facile pensare che siano gli altri incapaci di amare che non essere noi amabili. In questo modo è più semplice scaricare il senso di responsabilità.
  • Dietro alla sensazione di non essere amato o accettato socialmente possiamo rilevare anche un eccesso di amore. Se i genitori offrono ai bambini troppe attenzioni possono paradossalmente incidere negativamente condizionando la loro relazione affettiva con gli altri. Da adulti si pretenderà lo stesso immenso affetto che si è ricevuto da piccoli restando sempre delusi quando in realtà non lo si potrà ricevere. Si finisce così con lo spaventare l’interlocutore trovandosi sempre da soli.

Ma non solo. I problemi sociali sono tanti e a maglia larga.

Mi viene in mente ‘Milano non esiste di Dante Maffia Edizioni Hacca:  «Ritornare al paese con la famiglia». Lui ritornerà. La moglie e i figli no. L’operaio spera nel ripensamento dei suoi: «Ho fiducia che prima o poi torneranno sui loro passi e mi seguiranno. Ho dimostrato a tutti di non avere sbagliato mai, di essere rimasto sempre dentro il solco giusto. Anche questa volta sono nel solco giusto, voglio salvarli dalla peste che circola all’ombra del Duomo. E poi lo so, avranno un guizzo d’orgoglio, sentiranno il richiamo del padre, di ciò che gli ho sempre dato, dell’amore che ho avuto per loro. Queste non sono cose che si perdono così, senza una ragione, o per motivi futili».
Altre considerazioni legate al concetto ampio ed esteso di solitudine sociale.
Come la tolleranza. Ma mi sposterei oltre. Oscillo tra la tolleranza passiva vissuta come debolezza e permissività e tolleranza formale, in funzione del rispetto delle regole. Ma mi fermo alla tolleranza comunicativa: quella che riguarda il dialogo comprensibile e che si indigna ancora di fronte allo scandalo provocatorio ed immorale del valore morale violentato. Mi fermo alla tolleranza irrisolta in me stessa. Alla scelta del limite del rispetto umano. E mi fermo, sì mi fermo qui. ‘Milano non esiste’

            E poi passo alla comunicazione virtuale. Il mio ego.com e due anni fa sono partita su facebook. I miei pensieri, le mie foto, i miei ricordi, i miei amici. Mi sono raccontata in imperativi sempre più contagiosi. Mi sono aperta al mondo e credevo che il mondo mi si aprisse. Il sociologo Francesco Morace che studiava la comunicazione attraverso i social network mi insegnava che aprire uno spazio in internet, come un blog, una pagina web, un sito, è come ‘lasciare un segno, vivere da protagonisti e allo stesso tempo, fare parte di una comunità’. Ecco: ‘fare parte di una comunità’. Ho creduto di intessere discussioni e relazioni umane vere con ‘persone’. Sì sono stata infantile, a detta dei miei figli, che continuano a sorridere quando ascoltano i miei commenti emotivi! Sentivo, però una forte emozione quando regalavo la mia anima attraverso le ‘note’. Lasciavo risuonare dentro di me la musica delle parole che inserivo nello stato di ogni giorno; me ne nutrivo. Poi una sera la decisione di andare via. Credevo fosse una pausa. Poi in pochi minuti la decisione definitiva. Devo essere sincera fino in fondo: in realtà stavo scappando da un dolore, ma adesso quel dolore lo amo. Mi ha salvata. Mi stavo smarrendo lungo una strada solitaria e buia, e proprio quel dolore mi ha portato indietro. Avevo bisogno di ascoltare i miei pensieri. Li stavo dimenticando. Non sentivo più il loro suono. Ho cercato la solitudine, forse meglio dire il silenzio. Mi mancava il movimento del mondo dentro di me. L’ho trovato. E fuori fb c’ero io ad aspettarmi.

E’ possibile spostare l’asse di riferimento e trovarsi così di fronte un altro mondo. Ed ecco le infinite vie di uscita. Spogliarsi di tutte le sovrastrutture, di tutti i condizionamenti. La solitudine può diventare una carta vincente, la paura una risorsa, la fragilità una ricchezza. Questo è l’universo che abbiamo dentro. Questi sono gli strumenti per camminare con fiducia e con la consapevolezza di sé.


Rita Pacilio

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