Nota di lettura
di Luigi Cannillo
Quel grido raggrumato di Rita Pacilio, Ed. La Vita Felice, Milano,
2014
La poetica di Rita Pacilio implica la presa di
coscienza degli aspetti più crudi della realtà umana: il male declinato nelle
sue diverse espressioni, la violenza, la vessazione, l'ingiustizia, in
particolare nei confronti della donna e dei bambini. Quel grido raggrumato
esprime un ventaglio di situazioni, talvolta prese dalla cronaca contemporanea,
altre volte da scene di violenza rituale oppure da situazioni vissute nel
quotidiano, altre ancora da rielaborazioni allegoriche complesse. Alle prime appartengono per esempio la poesia
che ricorda Rawan, la bambina yemenita di otto anni - data in sposa a un uomo
di quaranta – morta dissanguata durante la notte di nozze. Alle seconde i riferimenti alle diverse
pratiche di mutilazioni dei genitali
femminili. Ma, appunto, anche il nostro quotidiano è presente e minaccioso
anche quando apparentemente innocuo: «Sul tavolino depone gli orecchini, / lo
sguardo e la voce che trema/ […]/ così si prepara la notte per appartenere a
qualcosa.» Tutto riconduce al dolore, anche in rappresentazione astratta: «Il
dolore quando diventa selvaggio/ Ha la fronte aspra, pesante/ maltratta i vetri
dell'auto [...]».
La poesia nasce dal grido di dolore e indignazione
rispetto a queste forme di violenza. Lo esemplifica già il potente testo di
apertura, nel quale la violenza degli uomini trova corrispondenza in paesaggi
arcaici scossi da fenomeni atmosferici estremi: «[...]/ Sono parole sacre le voci
dei bambini, tiepide le fronti/ eppure i glutei hanno croste, boomerang colpiti
nel segno/ fino ai fianchi pulsano inverni consumati domani/ intorpidite le
rupi si muovono come nembi folli le bufere./ [...]». La versificazione, qui e
nei testi iniziali incalzante e di misure che quasi doppiano l'endecasillabo, è
fortemente ritmata anche nei momenti più prosastici, come in un'epica in versi,
nella quale la spinta a denunciare e a raccontare si esprime più spesso
nell'accumulo di figure retoriche, nella tendenza allo sviluppo dell'allegoria
visionaria, come a formare grandi quadri nei quali si dispongono le figure del
sopruso: «L'hanno tenuta in due come un foglio, un lenzuolo/ i polsi e le
caviglie erano in una forma che si stira/ un mandarino intero riempiva la bocca
e la gola/ nel chiarore del vicolo divaricato fra le trombe d'aria/ [...]». I
versi si dispongono a folate o raggruppati in strofe. Nella seconda parte della
raccolta le misure sembrano piuttosto abbreviarsi fino a versi di una singola
parola, fino a comprendere anche spazi per il silenzio e pause, aprirsi a
elementi di mistero, rispecchiarsi in chiose e citazioni, offrire l'alternanza
e la compresenza di poesia e prosa, anche con riverberi di prosa poetica:
«[...] Dai suoi pantaloni sudici di mucca munta lei scendeva taciturna e
aperta, come a una tempesta o una vetta.]
La visionarietà esalta le immagini esasperate come
coro di sguardi rispetto all'evocazione del dolore oppure intrecciate a
brandelli del quotidiano, a volte con effetto di straniamento e opposizione tra
l'inizio e la fine della stessa poesia: «Scendono linee e fiumi dalla montagna/
le api intrecciano alveari a mazzi/ […]/ La telefonata delle 17,00. Arrendersi
è terribile.» L'effetto della visionarietà è poi anche quello di creare una
scena, una teatralità nella quale fatti e gesti diventino emblematici e gli
attori, protagonisti dell'azione assumano anche forma di figure mitologiche,
maschere, ombre o grida.
Emergono nelle diverse poesie della raccolta varie
forme di ritualità, sia dell'imporre che del subire il sopruso. Questa
componente ricorda, pur tra le tante differenze, il grande e dolente affresco
di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, nel quale, al di là di
singoli contesti storico-geografici, la violenza e la reificazione subita dai
corpi diventa geografia dolente del corpo, storia del corpo stesso. Cioè storia
scritta sul corpo e narrata dallo stesso. Particolarmente convincenti, nella
raccolta di Pacilio, gli episodi di raccoglimento, con i rituali semplici, come
nell'elaborazione di un lutto: «L'assenza ha una forma quieta/ dischiusa,
indecifrabile, bianchissima/ un tumulto di cellule nella gravità delle
spalle/fino a riaprire un rumore spezzettato// fermato nell'ansietà del
chiarore tra due costole/ nello stesso istante piegate alla redenzione/
mansueta. Sembra possibile la partecipazione/ la prima appartenenza fuori da
queste cose// in cui metto le mani, un bicchiere, un rosario,/ un libro, tante
voci e mai la tua.»
Quel grido raggrumato è una raccolta prevalentemente in terza persona, il Soggetto è un
insieme di diverse identità rese in questo modo sia soggettive che
generalizzate. La terza persona rende il racconto inequivocabile, lo oggettiva.
Narrando storie e situazioni esemplari le mette in scena davanti agli occhi di
tutti. Nel Soggetto, nell'autrice, permane la consapevolezza e il compito di
trasmettere tale consapevolezza, tessere il filo di dolore. L'autrice è il
filtro – non indifferente ma dolente e indignato - rispetto al grande affresco
che si va a tratteggiare, poesia dopo poesia - opera dopo opera si potrebbe ben
dire considerando anche la produzione più recente di Rita Pacilio, di cui
questa ultima si può ben considerare la parte finale di una trilogia. Come già
in altri testi di questa autrice, se lo sfondo è cupo e tragico, la luce non
viene cancellata. La dedica iniziale è “a chi rinasce, nonostante tutto”. Se è
quel “tutto” che sembra prevalere nel corso della raccolta, con i suoi risvolti
violenti e umilianti, la possibilità di rinascere non è esclusa, anzi viene
consegnata ai protagonisti senza nome delle poesie e ai lettori. La rinascita
ha luogo attraverso la propria innocenza, possibile proprio dall'essere stati
vittime e nonostante tutto avere creduto, essersi risollevati, avere vinto contro
il sopruso mantenendo la propria integrità.
Luigi Cannillo
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