Recensione a: “Gli imperfetti sono gente bizzarra”, di Rita Pacilio
Nel profondo sentire, generalmente
rimosso, di gran parte dell’umanità, la figura della sorella viene
spesso percepita come quella di una consorte. “Mia sorella, mia sposa”
recita il Cantico dei Cantici; e parlando di tempi lontani, ma
non remoti, “La Sacra Famiglia” certifica che in varie tribù europee “la
sorella era la moglie”. Due testimonianze così lontane nello spazio e
nel tempo confermano un sentimento che risale a esperienze primarie
dell’umanità, quando il potere tribale, non sappiamo se patriarcale o
matriarcale, dovette occuparsi del controllo delle nascite per limitare
la consanguineità. Nel conseguente “disagio della civiltà” prodotto
dall’istituzione matrimoniale coi suoi tabù, il sentimento di affinità e
l’attrazione tra familiari furono relegati alle fantasie infantili. Non
è raro però che anziani coniugi convivano “come fratello e sorella”
dando dimostrazione di coincidenza tra coniugalità e fraternità
nell’amicizia: “e fatta bianca l’una e l’altra coma” secondo un visione
petrarchesca non ancora oggi superata.
In senso quasi esoterico, fratello e
sorella primari sono i due generi opposti e complementari, che convivono
in ciascuno di noi nel corpo e nella mente, in equilibrio spesso
instabile. Se questo viene compromesso, è possibile che l’oscurità della
mente in un corpo disturbato intralci l’esercizio del libero arbitrio.
Le vittime di questo “accidente” vengono poi relegate in luoghi senza
orizzonte destinati ai disabili, o Imperfetti. Non tutti provano empatia
per questa realtà, non tutti mantengono il contatto. Rita Pacilio lo
fa, come donna e studiosa, come sorella e poeta. Inizia qui un
pellegrinaggio che fisicamente la conduce, ironia della sorte, presso un
lago simbolico della pazzia.
“Si increspa il lago di Nemi / in un
gesto di doloroso silenzio …”. “Sale … l’azzurro elementare, ti aspetta
davanti al cancello” dell’istituto che ospita l’infelice fratello
circondato “nel luogo più lontano della solitudine” da esseri umani
simili a noi, simili a lui, che soffrono del “morbo che cresce
nell’addio”.
Sulle acque del lago sottostante, un
celebre Imperatore circumnavigava ripetutamente il perimetro della
propria follia con due navi gemelle; una sotto il firmamento della
trasgressione tirannica e una sotto quello dell’espiazione: la nave dei
folli e quella dei penitenti, nave bordello e nave tempio. Che il trauma
di Caligola sia derivato dal desiderio frustrato di sposare una sorella
non si può escludere: da lì forse la regressione infantile delirante
prese le mosse.
Chi sia poi veramente sorella, nessuno
sa dirlo; finché il genere femminile, che si muove nel dramma della
natura umana in ognuno di noi, non si fa protagonista di fronte al
maschile che, suo malgrado, risulta comprimario. L’attrazione verso
l’unione totale di maschio e femmina difficilmente realizza in noi quel due in Uno del primordiale leggendario androgino e tende a trovare compensazione nell’essere Uno in due, scissione tra la paralisi della creatività maschile e la inquietudine della ricettività femminile.
Contrastare, se non sanare, questa
realtà, richiede un sacrificio; il sacrificio richiede un’offerta,
l’offerta richiama una vittima. In questo caso non può essere un
animale, per quanto puro, ma la più cara delle idee. Qui è la poesia,
ovvero la pietosa insania che abita in ciascuno di noi. Gli Imperfetti,
gente bizzarra, non sempre possiedono questa pietosa insania, ma o una
pietas senza insania o una insania senza pietas, come alcune loro
espressioni verbali e mimiche spesso mostrano. Comunicare con il
disabile mentale può significare allora uccidere o la parte d’insania
insita nella forma, o la quota di pietas velata nel significato.
Non è dato sapere se la sorella creda o
sappia di compiere una simile azione rituale; ma è quella che appare,
quella che fa. Circoscrivendo il perimetro spaziotemporale del dramma
nelle ventotto composizioni del poema, il centro del libro diventa il
suo altare, su cui bruciare con l’infrarosso del pathos la passione che
si fa compassione; mentre similitudini, metafore, analogie, e quante
altre figure poetiche circondano coralmente l’altare dell’espressione,
vengono incenerite in frasi, proposizioni, sintagmi, stilemi privati
disperatamente del senso: lasciando in evidenza una scarna
versificazione in quartine, anche ametriche o aritmiche, come ossatura
fumante, scheletro calcinato nella combustione di sentimenti, emozioni e
intuizioni:
“Se sotto le foglie c’è il resto sordo /
anche l’altro tempo canta bugie / le scale di Montale sono ripide /
grattano fino alla polpa bianca. … Amore mio io sono questa: / la
bellezza del circo / la colpa di aver gridato / nel tuo gambo
mendicante.”
Continua così, non troppo a lungo,
questa operazione apparentemente autolesionista e in parte nichilista:
l’unica forse che, azzerando il significato per esibire
provocatoriamente il nudo significante, con qualche debito verso
sperimentalismo e/o avanguardismo, si qualifica umanisticamente come
condivisione di una esperienza non altrimenti definibile. Aveva detto:
“Noi dispiaciuti li guardiamo enigma senza soluzione”.
Sperando che il fratello possa ricevere
beneficio da un libro, a lui più destinato che dedicato, va detto che
questa operazione risulta poetica in sé, anche nell’ anomalia che la
distingue da ogni orazione o giaculatoria propiziatoria o apotropaica.
La sua potente allegoria esoterica sembra trasformare la voce umana in
polvere marmorea di frammentarie macerie, quasi reperti di un piccolo Taj Mahal
raso al suolo. Circondata da quei reperti, la mente della sorella si fa
custode dell’anima fraterna, che non è sua consorte ma, già considerata
perduta, è stata ritrovata “nel posto più lontano” … “ e ora condiviso
“…. della solitudine” come amorevole richiamo a una nuova dimensione
della sublimità rivisitata.
Febbraio 2013 Raffaello Utzeri
http://www.lavitafelice.it/news-recensioni-r-utzeri-per-rita-pacilio-1156.html
http://www.lavitafelice.it/news-recensioni-r-utzeri-per-rita-pacilio-1156.html
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