Recensione: Raffaello Utzeri su 'Gli imperfetti sono gente bizzarra' di Rita Pacilio - La Vita Felice 2012




Recensione a: “Gli imperfetti sono gente bizzarra”, di Rita Pacilio

Nel profondo sentire, generalmente rimosso, di gran parte dell’umanità, la figura della sorella viene spesso percepita come quella di una consorte. “Mia sorella, mia sposa” recita il Cantico dei Cantici; e parlando di tempi lontani, ma non remoti, “La Sacra Famiglia” certifica che in varie tribù europee “la sorella era la moglie”. Due testimonianze così lontane nello spazio e nel tempo confermano un sentimento che risale a esperienze primarie dell’umanità, quando il potere tribale, non sappiamo se patriarcale o matriarcale, dovette occuparsi del controllo delle nascite per limitare la consanguineità. Nel conseguente “disagio della civiltà” prodotto dall’istituzione matrimoniale coi suoi tabù, il sentimento di affinità e l’attrazione tra familiari furono relegati alle fantasie infantili. Non è raro però che anziani coniugi convivano “come fratello e sorella” dando dimostrazione di coincidenza tra coniugalità e fraternità nell’amicizia: “e fatta bianca l’una e l’altra coma” secondo un visione petrarchesca non ancora oggi superata.
In senso quasi esoterico, fratello e sorella primari sono i due generi opposti e complementari, che convivono in ciascuno di noi nel corpo e nella mente, in equilibrio spesso instabile. Se questo viene compromesso, è possibile che l’oscurità della mente in un corpo disturbato intralci l’esercizio del libero arbitrio. Le vittime di questo “accidente” vengono poi relegate in luoghi senza orizzonte destinati ai disabili, o Imperfetti. Non tutti provano empatia per questa realtà, non tutti mantengono il contatto. Rita Pacilio lo fa, come donna e studiosa, come sorella e poeta. Inizia qui un pellegrinaggio che fisicamente la conduce, ironia della sorte, presso un lago simbolico della pazzia.
“Si increspa il lago di Nemi / in un gesto di doloroso silenzio …”. “Sale … l’azzurro elementare, ti aspetta davanti al cancello” dell’istituto che ospita l’infelice fratello circondato “nel luogo più lontano della solitudine” da esseri umani simili a noi, simili a lui, che soffrono del “morbo che cresce nell’addio”.
Sulle acque del lago sottostante, un celebre Imperatore circumnavigava ripetutamente il perimetro della propria follia con due navi gemelle; una sotto il firmamento della trasgressione tirannica e una sotto quello dell’espiazione: la nave dei folli e quella dei penitenti, nave bordello e nave tempio. Che il trauma di Caligola sia derivato dal desiderio frustrato di sposare una sorella non si può escludere: da lì forse la regressione infantile delirante prese le mosse.
Chi sia poi veramente sorella, nessuno sa dirlo; finché il genere femminile, che si muove nel dramma della natura umana in ognuno di noi, non si fa protagonista di fronte al maschile che, suo malgrado, risulta comprimario. L’attrazione verso l’unione totale di maschio e femmina difficilmente realizza in noi quel due in Uno del primordiale leggendario androgino e tende a trovare compensazione nell’essere Uno in due, scissione tra la paralisi della creatività maschile e la inquietudine della ricettività femminile.
Contrastare, se non sanare, questa realtà, richiede un sacrificio; il sacrificio richiede un’offerta, l’offerta richiama una vittima. In questo caso non può essere un animale, per quanto puro, ma la più cara delle idee. Qui è la poesia, ovvero la pietosa insania che abita in ciascuno di noi. Gli Imperfetti, gente bizzarra, non sempre possiedono questa pietosa insania, ma o una pietas senza insania o una insania senza pietas, come alcune loro espressioni verbali e mimiche spesso mostrano. Comunicare con il disabile mentale può significare allora uccidere o la parte d’insania insita nella forma, o la quota di pietas velata nel significato.
Non è dato sapere se la sorella creda o sappia di compiere una simile azione rituale; ma è quella che appare, quella che fa. Circoscrivendo il perimetro spaziotemporale del dramma nelle ventotto composizioni del poema, il centro del libro diventa il suo altare, su cui bruciare con l’infrarosso del pathos la passione che si fa compassione; mentre similitudini, metafore, analogie, e quante altre figure poetiche circondano coralmente l’altare dell’espressione, vengono incenerite in frasi, proposizioni, sintagmi, stilemi privati disperatamente del senso: lasciando in evidenza una scarna versificazione in quartine, anche ametriche o aritmiche, come ossatura fumante, scheletro calcinato nella combustione di sentimenti, emozioni e intuizioni:
“Se sotto le foglie c’è il resto sordo / anche l’altro tempo canta bugie / le scale di Montale sono ripide / grattano fino alla polpa bianca. … Amore mio io sono questa: / la bellezza del circo / la colpa di aver gridato / nel tuo gambo mendicante.”
Continua così, non troppo a lungo, questa operazione apparentemente autolesionista e in parte nichilista: l’unica forse che, azzerando il significato per esibire provocatoriamente il nudo significante, con qualche debito verso sperimentalismo e/o avanguardismo, si qualifica umanisticamente come condivisione di una esperienza non altrimenti definibile. Aveva detto: “Noi dispiaciuti li guardiamo enigma senza soluzione”.
Sperando che il fratello possa ricevere beneficio da un libro, a lui più destinato che dedicato, va detto che questa operazione risulta poetica in sé, anche nell’ anomalia che la distingue da ogni orazione o giaculatoria propiziatoria o apotropaica. La sua potente allegoria esoterica sembra trasformare la voce umana in polvere marmorea di frammentarie macerie, quasi reperti di un piccolo Taj Mahal raso al suolo. Circondata da quei reperti, la mente della sorella si fa custode dell’anima fraterna, che non è sua consorte ma, già considerata perduta, è stata ritrovata “nel posto più lontano” … “ e ora condiviso “…. della solitudine” come amorevole richiamo a una nuova dimensione della sublimità rivisitata.

Febbraio 2013 Raffaello Utzeri

 http://www.lavitafelice.it/news-recensioni-r-utzeri-per-rita-pacilio-1156.html

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