Rita Pacilio, Non camminare
scalzo, Edilet, Roma, 2011
Ha la struttura del prosimetro questo libro tragico,
sofferto – eppure animato da un’istanza di salvazione dal dolore – di Rita
Pacilio dal suggestivo titolo Non
camminare scalzo (Edilet, Roma, 2011). Un diario lirico che guida il
lettore all’incontro con la sofferenza; un diario il cui «sguardo è
centralizzato sullo spazio interno del proprio vissuto» – come l’autrice stessa
avvisa in un’apposita quanto necessaria “introduzione” dai risvolti tematici, finanche
sociologici (non è, peraltro, fuori luogo ricordare che l’autrice si occupa di Mediazione
familiare e dei conflitti interpersonali, oltre che di Prevenzione delle
dipendenze). Che il genere letterario attinga – si diceva – a un misto di prosa
e poesia ha tuttavia una sua intrinseca ratio;
l’ansia di dire, di raccontare «la sofferenza propria e dell’altro» (Introd., p. 7) non può che trovare in
tale genere la sua cifra più autentica, dal momento che incontenibile è la voce
della Pacilio e impossibile è ingabbiare quel cupo dolore nella purezza anodina
del verso, circoscriverne gli effetti entro lo spazio angusto della
versificazione; di qui, allora, sovente lo “strabordare” della pronuncia in una
prosa che – beninteso – non è meno lirica o priva di squarci poetici, ma che
risulta funzionale a esprimere la complessità, e dunque la latitudine di quella
sofferenza assurta a malefica protagonista del mondo (interiore o collettivo
che sia). Un libro coraggioso, dunque, e che ha l’indiscusso pregio di indurci a
riflettere sul significato del dolore. Un dolore che coinvolge sia la fisicità del
corpo, sia la sfera della psiche, in una tensione che avvince costantemente il
lettore, visitatore di questi bui meandri in cui regna l’abuso, la violenza più
becera e bieca e da cui pure si staglia, prepotente, il grido doloricida di una
donna offesa, dalla dignità ferita, ma non prona, «in attesa che una gioia, non
ancora conosciuta – scrive Utzeri nella prefazione – prenda l’iniziativa per
venire ad aprirci» alla vita, a cacciarci dal serraglio del male che ha
imprigionato la forza d’amore, l’anelito alla libertà.
Rispondente alle esigenze tematiche è lo stile
dell’opera; uno stile improntato prevalentemente alla paratassi con coordinazione
per asindeto che traduce il flusso psichico dell’io narrante; di qui la
concitazione, la rapidità del dettato che suona come richiesta, invito, esortazione
dell’autrice ad essere «riportata a
casa» (p. 83), ad essere «lasciata
camminare scalza» fino a «sentire il freddo della terra, prima
che mi inghiotta», fino ad «ansimare sul pavimento, arrotolarmi su me stessa nei
passi lenti» (p. 84). Di qui, di conseguenza, alcuni
interessanti espedienti retorici, quali anafore, spesso triplici («ho fame», «dammi»)
che traducono il ritmo martellante e hanno il timbro di un’invocazione che
possa salvificare. Altrove sono l’iterazione ravvicinata e l’espressionismo delle
immagini a fare da protagonisti del narrato; è il caso di questo stralcio di p.
58: «[…] Una luce arriva / da dentro e si irradia: una forza», cui segue l’inserto
«che esplode come un lampo d’agosto nel mare» il quale, per la sua collocazione,
non sappiamo se pertinente alla chiusa del testo poetico di cui sopra o della
prosa a seguire. Una tensione marca sovente il dettato, per mezzo di immagini
forti, carnali, rese con lemmi pregni di fonemi aspri, percussivi: «Rabbiosa
come una gatta che graffia» (p. 66), «Si lacera la carne, si sbrindella» (p.
74). Ma il libro non si risolve in mero cupio
dissolvi, né vuole essere ‘racconto’ svolto
unicamente per viam negationis;
aleggia per ogni dove l’afflato della vita, l’esplosione dei sessi, la «danza /
tribale che fa vibrare le pareti» (p. 67), le «fibrillazioni di notti d’amore» (p.
66), quella richiesta di gioia – di cui si diceva – che possa fare sentire l’io
della Pacilio, nonostante le tenebre e la «pioggia sui vetri dei miei occhi»
(p. 73), «un ciliegio sempre generoso, a braccia larghe» (p. 71), «con i
capelli mossi e la pelle liscia di rose» (p. 74).
Daniele
Santoro