Recensione - Aky Vetere su Rita Pacilio 'Non camminare scalzo' Edilet Edilazio letteraria 2011






'Non camminare scalzo'
monologo teatrale di  Rita Pacilio Edilet Edilazio letteraria

Lettura critica di Aky Vetere

Rita Pacilio nel romanzo: Non camminare scalzo, modella oltre confine un nuovo personaggio e costruisce un mito arcaico in prosa poetica, dove la donna, soggetto narrante, è anche oggetto di una trama cruda, anzi crudele (come mai potremmo aspettarci dalle parole di una madre), tessuta con pazienza femminile a due mani e con un filo prossimo ad essere tagliato. Come una maschera tragica inscena un divenire intessuto per anni, andando avanti e indietro con mani abili per divorare con dirompente coraggio ogni pruderie e presentando ciò che in questa società è d’uso nascondere dietro paraventi farisaici. In questo romanzo è sempre l’oltre che si legge, anche se certi paradigmi non cambiano per ricordare che la storia femminile è condizione esistenziale. Tuttavia ora le donne sono vittime e carnefici, denunciate e denuncianti, donne che diventano protagoniste di un dramma recitato in un solo atto dove i ruoli impersonati da una sola maschera porta il nome di dolore. Il dolore è locus minoris resistentiae della fragilità endemica della natura umana che tuttavia è necessaria. E’ un “pathos” che mi porta, pur in un contenitore diverso per tempo e ambientazione, a pensare al romanzo Una donna di Sibilla Aleramo, dove il demone del dolore si palesa sotto le spoglie della violenza che inscena la parte distruttiva di tutto l’impianto umano. Ma la novità di questo poetico romanzo è che le donne sono due; tutte vestono ruoli differenti (madre e figlia), con tutti i correlativi di una condizione femminile divisa e poi unita da un’esistenza tragica comune, finalizzata a far emergere un’analisi epistemologica del dolore vissuto come Necessità. Ogni azione, anche la più dura ed inaccessibile, è portata a svolgere un compito inderogabile. Gli uomini sono solo maschere che recitano una parte necessaria perché Ananchè è donna, madre anche lei, ma delle Parche, regine della vita e della morte. In loro è l’antinomia; tutto è inciso sulla carne con ferri incandescenti per imprimere con engrammi indelebili il valore del dolore necessario. La scrittrice ci può solo informare  liricamente (ecco perché la forma di prosa poetica del romanzo) che il tormento è necessario; necessario è far cadere ogni narrazione all’interno di un contesto in cui la storia è protagonista della vicenda umana e dove però ogni scissione di ruolo è fonte di pensiero e così ogni pensiero che nasce dal dolore è per natura tragico. La denuncia può intervenire solo alla fine, quando il dolore non est procedere in infinitum, cioè quando qualcosa interviene a tagliare il filo di questa tessitura e la morte diviene essa stessa liberatrice dal karma.                                                                                                             

AKY VETERE
                                                                                                          

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