Recensione - G. Linguaglossa su Pacilio/Moica


G. Linguaglossa su Pacilio/Moica

12 marzo 2011

Rita Pacilio Claudio Moica Di ala in ala Faloppio, LietoColle, 2011

Questo discorso «duale» di Rita Pacilio e di Claudio Moica vuole aprire il discorso poetico al rispondere dell’altro: il luogo è quel logos dell’asseribilità generalizzata, quel logos che finirà ferito a morte dalla crisi della Ragione. Il rispondere (della Ragione narrante) con lo scorrere del Novecento diventerà sempre più un problema, diventerà una finzione, benché non ancora pensato come tale; la finzione letteraria di Pacilio e di Moica riflette e non-riflette, anche se mette in opera il palcoscenico del discorso «duale», non può fare altro che sprimere la propria costitutiva mancanza. Il rispondere, oggetto di se stesso, risponde a se stesso; ma qui è l’intera interrogazione sul linguaggio che sorge (e tramonta): è il XXI secolo che inizia. Se il neopositivismo è un’epistemologia senza oggetto, in quanto logicista, lo strutturalismo, invece, si immergerà nel linguistico rinserrando il «soggetto» in un sistema di differenze, di rapporti significanti e di significati. I «miti» perdono con ciò la loro individualità e la loro sovraindividualità, diventano anonimi nella città anomica e a-topica, diventano il «privato» di ciò che non è più neanche «pubblico», mettono in pubblico ciò che non è più nemmeno privato. Questo emerge anche dalla corrispondenza dei «soggetti» (del discorso «duale») essendo ognuno di essi il significante dell’altro. Il soggetto non fonda il simbolismo ma lo trova già bell’e fatto, entra nel bosco delle corrispondenze dove tutte le cose si corrispondono - ma era un’illusione della civiltà del simbolismo!: Esse non si corrispondevano che per significanti e dissomiglianze e dissolvenze semantiche. Con lo strutturalismo e le sue poetiche epigoniche il mondo si assottigliava a fondale unidimensionale che prefigurava la superficie infinita della civiltà mediatica e il linguistico si estendeva a macchia d’olio…
Il «soggetto» dunque (anche quello del discorso duale) si struttura nell’ambito di una rete che lo definisce per il significante e il significato. Il discorso «duale» di Pacilio e di Moica (come del resto anche il discorso uninominale) è quel discorso aperto dove i significanti si richiamano a vicenda e, richiamandosi, si rispondono, ma la loro risposta è soltanto un episodio problematologico, una falsificazione del problematologico; il loro discorso rientra dalla finestra del logos dell’asseribilità generalizzata che se ne era andato via per la porta principale. Del resto, il Dasein  di Heidegger certifica già la morte del soggetto; tuttavia l’ontologia del linguaggio poetico (come si diceva una volta) occulta il problema invece di rischiararlo: mette la differenza là dove esso non è. La domanda sull’essere non è niente altro che la questione delle problematizzazioni del linguistico. Tutta la poesia (e il romanzo) del tardo Novecento altro non sarebbe che un rifugiarsi nei «luoghi» dove il Dasein celebra la liturgia della propria presenza-assenza, ovvero, della propria morte. «Esiste il confine delle parole?» si chiede Moica, e la Pacilio risponde: «Domani le rane non saranno qui», come è giusto che sia, perché il rispondere è già un atto vandalico (e immotivato), in quanto: perché rispondere? A che pro? E per conto di chi? E per quale domanda?... Ecco perché, a rigore, un discorso «duale» dovrebbe essere messo in scena da due sordo-muti che non possono parlare che attraverso una finzione e una falsificazione. Ed è appunto quello che cercano di fare i due autori Rita Pacilio e Claudio Moica: tentano, con il discorso poetico, di ridiventare muti e sordi di fronte al «mondo».

Giorgio Linguaglossa



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