RITA PACILIO, IL RESPIRO DELLA POESIA
In questo tempo di precarie certezze affidiamo alla poesia
il senso dei nuovi sentieri.
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E’ difficile incontrare i poeti. Incrociare i loro sguardi o le parole.
Quelle che sanno di inchiostri precoci o di viole selvatiche, di calure e di gatti.
O dell’amore, dei suoi confinati indizi. E’ difficile incontrarli perché sono rari ma straordinariamente necessari.
Ricordate l’urlo di Moravia dinanzi al corpo di Pasolini?
“Abbiamo perso innanzitutto un poeta e di poeti ne nascono soltanto tre o quattro ogni secolo. Il Poeta è sacro!”.
Allora direi di approfittare di questo tempo malato per farne tempo liberato, prosciolto da ingannevoli frenesie,
da noie alimentate da altre tediosità. Facciamo che queste “fessure” occasionali
siano motivo di lettura pulita e pertanto cosciente, intima, confidenziale.
Mi piace pensare a Rita Pacilio in questo momento esteso; alla sua poesia di reiterati affanni, di spasmi,
di minuscoli incantamenti eppure come spalmata su pianori e valli.
Come un eco ininterrotto e sismico che s’accompagna al vento e trova riparo sulle nostre labbra.
Per lievitarle di segnali incensurati, di bagliori, di cristalli di sale.
Per rincorrere ancora il vento – o è questo all’inseguimento dell’eco? – in attesa di un nuovo approdo, della battigia,
della sommità in collina. O di labbra inconsuete.
Rita Pacilio l’ho incrociata per caso ovvero per fato – per “quel curioso Iddio che bussa alle porte e detta arsure”
di bonaviriana memoria – perché sono convinto che esistono crocevia inevitabili, tracce da percorrere,
odorosi aromi da inseguire.
E oggi mi sorprende la sua “voce” che accoglie il dolore – i dolori – come linguaggio degli ultimi
per farne sillabario comune: sfaccettato, nascosto, introverso.
Eppure distillato – più o meno denso – negli occhi e nelle mani di ognuno.
Mi sono chiesta mille volte
cosa ha da dire un cane alle campane
della Chiesa, quando scende la notte.
Ogni tanto arriva un pensiero
dal balcone aperto del palazzo
che vedo dai miei vetri, per il resto
Tutto rimane taciturno e sospeso
Sa leggerlo il dolore Rita Pacilio, senza confinarlo altrove ma aprendo, con le parole della poesia,
quello “spazio interno del proprio vissuto – come dice lei – che è residenza personale ma, altrettanto,
universo affollato.
La sofferenza come diagnosi testimoniale ovvero come “offerta”, luogo di velluti e di intemperanze,
di silenzi gelidi e di ghigni irrefrenabili. Un TIC-CHET-TI’-O del verbo che non regola il tempo
della narrazione ma lo apre, lo altera, lo piega, lo affatica.
Giorni fa c’era il sole sul tetto
un cielo rovesciato
e io nella tegola riflessa.
Noi siamo eternità che dura poco
Tra il dolore “necessario” e quello più drammaticamente “eccedente” si consuma una costruzione quasi amplificata,
assordante, di nebbia che risale a confondere gli spazi e gli argini.
Come se davvero ci fosse nel dialogo un insostituibile riparo per lo sguardo e l’ascolto.
E un alloggio, precario ma proficuo, per la memoria di ognuno.
Rocco Zani, critico d'Arte
Rita
Pacilio (Benevento 1963) è
poeta, scrittrice, sociologa, mediatrice familiare,
si occupa di poesia, di
critica letteraria, di metateatro, di saggistica,
di letteratura per l’infanzia
e di vocal jazz.
Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione
Arte e Saperi.
Ha ideato e coordina il Festival
della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio.
Sue
recenti pubblicazioni di poesia: Gli imperfetti sono gente bizzarra, Quel
grido raggrumato,
Il suono per obbedienza, Prima di
andare, Al polso porto catene, La venatura della viola.
Per la
narrativa: Non camminare scalzo, L’amore casomai.
Pubblicazioni
di letteratura per l’infanzia: La principessa con i baffi,Cantami una filastrocca,
La favola
dell’Abete, La vecchina brutta e
cattiva.
È
stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in inglese,
in
spagnolo, in catalano, in georgiano, in napoletano.
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