RITA PACILIO: La venatura della viola
(Giuliano Ladolfi editore,
Borgomanero, Novara, 2019)
Questa raccolta di versi di Rita Pacilio ruota intorno a un
concetto-chiave: l’amore. Amore quasi francescano: amore simpatetico tra
l’autrice e la natura, tra lei e il mondo; il che implica, come vedremo, un
ottimistico, positivo sentimento della vita e del creato.
Simbolo di questa natura è la viola la quale è portata da Rita,
attraverso un arricchimento semantico del segno, ad una straordinaria,
polivalente, simbologia: simbolo, come dice lei stessa, di ciò che vi è, nella
vita e nel mondo, di più “semplice” e “dolce”, e quindi viola come prodotto
lieve e delicato, prodotto della natura che, nelle sue manifestazioni più belle
e affascinanti, sa essere “gentile e calma”, come gentile e calma è la viola. E
poiché non vive da sola, ma insieme alle sue “consorelle”, essa è anche simbolo
della fratellanza, e quindi, di una società di uomini/fratelli che vivono in un
mondo nel quale, come Rita afferma nel testo di pag. 44, “porti in rovina e chiusi come porte / rendono l’acqua inutile e il
tramonto povero”, dove l’acqua non è un elemento che unisce porti lontani,
ma addirittura elemento divisivo e campo
di battaglia per meschini interessi politici. Ancora: la viola è anche simbolo
puramente ed esplicitamente ecologico nella sua significanza più alta, come
simbolo di quella natura alla quale noi uomini dovremmo essere più fedeli. Lo
testimonia l’accorato messaggio di pag. 6: “Vi
prego, usiamo buone maniere e tenerezza quando siamo di fronte a un albero,
accarezziamolo…”.
Ma nella vita si trovano aspetti negativi, turbamenti che sconvolgono
chi ha un suo mondo morale fatto di valori positivi. Le persone più sensibili
avvertono profondamente, e a volte in modo lacerante, questa conflittualità. I
poeti in modo particolare, dei quali si può dire tutto quello che si vuole,
tranne che essi non abbiano una sensibilità particolare, antenne più pronte a
captare le onde magnetiche che vengono dal mondo, oppure quello che De André chiama il “terzo
occhio invincibile e speciale”, che consente di penetrare più a fondo di altri
all’interno delle cose della vita e del mondo.
E Rita coglie nel mondo “incuria, abbandono, assenza, miseria umana” (p.
5). Sono cose alle quali ci si può abituare e accomodare. Ma davanti alle
quali un poeta sente dentro di sé un
moto di ribellione, ma non sorda ribellione passiva e improduttiva. Infatti
Rita indica una via, un’altra possibilità, un’alternativa concreta e reale che
possa dare un senso alla propria vita e a quella di tutti gli uomini.
Allora? L’alternativa che Rita sente di seguire e che indica anche agli
altri, è quella dell’amore nella sua dimensione più generale, amore che si
potrebbe definire “simpatia cosmica”: capacità di vivere con gli altri e per
gli altri, ma soprattutto consapevolezza di vivere insieme agli altri. Sì,
soprattutto: “insieme”, come la nostra poetessa suggerisce richiamando alla
memoria, a pag. 7, la canzone della nonna: Le
viole come fanno? / Stanno tutte insieme”: che diventa anche la proposta
della nostra poetessa.
Certo, il richiamo alla leopardiana “social catena”, alla solidarietà
universale contro lo strapotere della Natura, sembra ovvio, ma Rita indica in
quell’“insieme” la necessità non solo della umana solidarietà, ma anche di
combattere contro la malvagità degli uomini, contro il negativo dei loro
comportamenti e contro i danni che essi provocano alla nostra casa comune.
Questo può essere il semplice sentimento dell’individuo, un amore
empatico, una simpatia cosmica che lo proietta in una dimensione di vita
associata avvertita come ineludibile necessità del vivere e del realizzarsi.
Ma al poeta, a Rita, non può bastare, e
difatti non basta: di qui la necessità, il bisogno di esprimere e comunicare
sentimenti e idee affiché diventino patrimonio comune degli individui: bisogno
di fissarli sulla carta, per mezzo dell’espressione poetica, quella fatta con
le parole, che non devono essere le parole degli altri, le parole di tutti,
usurate da un uso spesso disattento e spesso improprio, ma le parole del poeta,
che hanno una loro originalità e perciò stesso suscitano in chi le legge o
ascolta un’attenzione particolare perché creano in lui uno stravolgimento
inatteso che lo spinge alla meditazione e, magari, alla condivisione di esse.
Allora? Necessità di una espressione consapevole, e quindi di una selezione linguistica adeguata ad
esprimere i concetti elaborati. È lì la sostanza del lavoro del poeta, e quindi
la sostanza stessa delle cose. Non per niente Heidegger diceva che “il
linguaggio è la casa dell’essere”, la casa dove abita la lingua del poeta, cioè
quella lingua senza la quale il poeta vagherà nelle sue incertezze o nella sua
inutilità. E Rita cerca un linguaggio poetico come strada alternativa alla
degradazione umana. È proprio nel linguaggio poetico quella che io ritengo la
più importante connotazione della vita del poeta: la parola originale, nella
quale si invera la “libertà” come forma del vivere non condizionato da ciò che
risulta incompatibile con noi.
E il linguaggio di Rita corrisponde alla scelta ideologica, cioè alla struttura
contenutistica della sua poesia: ha cercato, come lei stessa afferma a pag. 5,
la risposta alla “bruttura della vita” nella “semplicità e nella dolcezza di un
piccolo fiore”, la viola, da amare e coltivare con cura; e così ha scelto, e ha
trovato, un linguaggio corrispondente, un linguaggio “semplice” e “dolce” (che
non significa linguaggio “facile”), un linguaggio semplice e dolce che le
consentisse di dire, senza inutili tortuosità e senza quella ricercata oscurità
cara a molti poeti di oggi, ma nelle forme più esplicite possibili, i suoi
contenuti ideologici. E difatti si può dire, come Rita stessa afferma, che qui,
in questa raccolta, davvero “maneggia la
parola poetica per trovare la strada possibile da percorrere quando non ci si
arrende all’incuria, all’abbandono, all’assenza, alla miseria umana” (p. 5).
***
In fondo
l’aveva sempre saputo
che sarebbe accaduto il cambio
anatomico del saluto a mascelle
tese per evitare l’affanno
dell’addio
durato quattro anni e mezzo
la ripetizione sovrabbondante
della chiusura. In fondo già
conosceva la sbattuta del portone
le parole che sarebbero tornate
quel tono negativo di cui
preoccuparsi.
Vecchia storia suggerita dalla forza
gravitazionale nell’aria immobile
in
cui tutto il mondo va alla deriva.
***
In ogni
punto di questa stanza
sprofonda il vento senza voce
lo specchio raccoglie polvere e
destini
al marmo gingilli, la camicia
stretta.
Mani agitate sconvolgono ricordi
il nome; la data di nascita
schiamazza
per terra.
Lo lasciò così, sofferente e audace
inconsolato nell’ultimo pomeriggio
caduto a spirale dal soffitto
aperto.
In ogni passo di questa stanza
rimane
lo spirito e la collera della
coscienza,
noi vecchi inseguiamo l’origine, la
foce
ma
sarà difficile ricostruire il senno.
***
Il mondo è
un corpo devastato
ha l’erba secca per il troppo pianto
è steso di fianco senza parole in
bocca
alle dita manca il segno della pace,
si avverte il lamento del lupo in
agonia
la neve permanente morire piano,
piano.
Qualcuno dice non puoi farci niente
rassegnati al timbro del frastuono,
allora coglierò tutte le viole
le terrò insieme come faceva nonna
adornerò capelli scombinati
e
abbandonata alla saggezza del
necessario
sarò
povera delle solite cose.
***
Quando
niente ha più importanza
giriamo i pollici con la testa
sgombra
mettiamo a lato perfino le gioie
facendo a pezzi il genere umano.
Senza ambizione e senza progetti
decidiamo che la vita è solo questa
sostituiamo la luce al buio,
garanzia del tocco giusto della
piuma.
Voglio esiliarmi in un giardino
dove le burrasche restano fuori
dove sulla bocca di tutte le viole
c’è
l’audace avventura del poco.
***
Ci si
ammala. Per eccesso di fiducia
per velocità, per la speranza
invecchiata.
Cresce dentro senza preavviso, il
ladro.
E gli parli. Devi fartelo amico.
Dici che non va bene. Che sei
innamorata
che domani hai un nuovo libro da
leggere
hai da fare, infornare la torta di
pere
innaffiare le viole sul davanzale.
La paura si fa una risata. E anche
lui.
Non lo avresti voluto, lo ripeti
sottovoce.
Ci si ammala per avidità
quando
la forma del secolo non ti ha voluta.
***
Rita Pacilio (Benevento 1963) è poeta, scrittrice, collaboratrice
editoriale, sociologa, mediatrice familiare, si occupa di poesia, di critica
letteraria, di metateatro, di saggistica, di letteratura per l’infanzia e di
vocal jazz. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione
Arte e Saperi. Ha ideato e coordina il Festival
della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio.
Sue recenti pubblicazioni di poesia: Gli imperfetti
sono gente bizzarra (La Vita Felice 2012) risultato
vincitore di numerosi Premi, tra cui Laurentum 2013, è stato tradotto in
francese Les imparfaits sont des gens bizarres, (L’Harmattan,
2016 Traduction en français par Giovanni Dotoli et Françoise Lenoir) e per Uet
Tunisi la traduzione in lingua araba (a cura del Prof.
Othman Ben Taleb), Quel grido raggrumato (La Vita
Felice 2014), Il suono per obbedienza – poesie sul jazz (Marco
Saya Edizioni 2015), Prima di andare (La Vita Felice, 2016).
Per la narrativa: Non camminare scalzo (Edilet
Edilazio Letteraria, 2011); L’amore
casomai – racconti in prosa poetica (la Vita Felice, 2018); Al polso porto catene, landay (RPlibri,
2019). A ottobre 2019 la recente pubblicazione di poesia La venatura della viola (Ladolfi
Editore) tradotta per l’Harmattan in
lingua francese, Les nervures de la violette, a cura di Françoise
Lenoir.
Pubblicazioni di letteratura per l’infanzia: La
principessa con i baffi, fiabe
(Scuderi Edizioni, 2015); Cantami
una filastrocca, quaderno operativo per la Scuola dell’Infanzia (RPlibri,
2018); La favola dell’Abete, storia per la magia del Natale (RPlibri 2018);
La vecchina brutta e cattiva (RPLibri,
2019)
È stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in
inglese, in spagnolo, in catalano, in georgiano, in napoletano.
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