Prima di andare è un lavoro poetico composto da coordinate emozionali e razionali che si intrecciano in una relazione indissolubile e, talvolta, inconsapevole, attraverso un reticolato in versi di alto ed elegante livello stilistico e linguistico. Rita Pacilio, studiosa dell’essere umano e dei contesti psico-sociali, confessa la vita di una donna anziana che, grazie al ricordo del suo amore, tiene in vita la memoria del mondo. Diverse le tematiche sottese tra scienza e coscienza: la solitudine e la frustrazione dell’ammalato, l’indifferenza sociale, la dimenticanza correlata ad alcune patologie cliniche che mettono a dura prova quella parte del cervello che custodisce la memoria a breve e a lungo termine e, inoltre, l’amore, in tutte le sue forme, amore come vera e unica motivazione di vita. Il testamento simbolico e spirituale è per l’umanità intera: il dialogo interno, momento di ascolto delle crisi dell’esistenza, controlla gli stati d’animo replicando le gioie del passato, i‘pensieri automatici e gli errori senza commiserazione o distorsioni autolesionistiche e costruisce valutazioni adeguate che facilitano il processo di rielaborazione. Cinque lettere d’amore e trentanove poesie, suddivise in quattro sezioni - Ti scrivo dal mio niente, Guardare il vento, sapere il vento, Riaffiorare, Nel posto dove volano gli uccelli, in cui vengono mostrate accuratamente la caducità delle cose e la permanenza dei sentimenti.
(dalla quarta di copertina)
Prima lettera
Come riuscirebbe il mare a dire come mi sento e sento l’averti conosciuto e amato? Come dirti la lama bianca che mi ha sventrato il torace e poi il filo che ha ricucito, aperto, richiuso a strati, cellula dopo cellula, pazientemente, portando dentro i fiori, i pesci, il tuo cuore vivo?
Un trapianto, un’anima indifesa nella mia: eri un braccio d’edera, un cespuglio, una collina intera. Vieni a vedere chi sono diventata, inavvertitamente, apparsa sul mio volto, mentre da lontano, da lontanissimo albeggi gli attimi mutilati ai miei. Pulso attonita ogni debolezza che ti appartiene e resta vivo il moncone della mia scellerata grazia: ecco chi sono per genealogia compiuta. Una prodezza che il possesso e l’innesto della fibra può rendere vivo, possibile. Sono una razza nuova. Sono vecchia, per questo posso partorire nascite straordinarie e cuori sacri, l’aria degli anni infiniti e andati, l’infanzia, i rami vivi poggiati sulle spalle, tutti i segreti degli andirivieni, della fatica, del tremendo amore battuti a zig-zag in un crescendo verticale, un soprassalto a trama stretta. Un’altitudine, un traliccio in cui passa la filovia, il tram, il circuito di esperienze e storie, gli schiamazzi, le parole fioche, le abitudini che avevamo. Sono io la storia. Sembri lo scialle di mia madre sul collo freddo e bianco, come la barca arrivata sulla riva, sul litorale più vicino agli sciacalli, adesso sei sul mio collo, tra il cervello e le spalle, sei pensiero. Tu non tornare se pensi che qui puoi annegare, impantanarti centimetro dopo centimetro nella sabbia, nella mia vita che hai abbandonato. La mia età è sabbia appiccicosa e liscia, sono quel rimedio irrimediabile, infaticabile e chiaro che si attacca alla pelle, alla camicia, al resto dell’orgoglio, del midollo che scommettiamo quando ti lasciavo e ti riprendevo senza consolarti. Sono pentita di non averti sorriso abbastanza, ma, non procedere nella mente con tutto il peso minaccioso. Torna indietro nell’acqua limpida e lunare, in quel manto turchese e rotondo in cui resti immortale. Proteggiti dal tempo che passa e ti rende incerto ai miei occhi. Resta vivo e sii brezza. Vorrei custodirti nel palmo della mano, dove annoto lo scambio dei significati. Non perderti, vorrei non perderti nuovamente, questa volta per colpa mia, del mio andare avanti inesorabile nella dimenticanza, ma se ti ho smarrito, amore, devi accostarti con prepotenza alla mia assenza e piangere con me. Sì, ti sto dimenticando e stai andando lontano alla svelta. Queste mattine, in cui scrivo come bisogno naturale, mi abbandono alla consapevolezza della radice che siamo stati, che sei, che eri. Quando mantengo le distanze dalla fine procedo in uno stato di ingegnosa eccitazione e mi sforzo di apparire un’altra, di sembrare un risentimento intatto, per niente scusabile. Per questo devo ripetere il tuo nome, il mio nome, la storia che ci ha chiamati.
Fino alla parte scomposta di un tramonto
I nervi entrano ed escono dalla guerra
invocano la grazia solenne
del ritorno. Non ignorerò l’ardore di chi
siamo stati, sarò vigile ogni sera
quando le peonie sfioriranno
sezionerò il tramonto e ogni segno del creato
sul filo esasperato del mare aperto. Mi allungherò
fresca d’amore sotto al soffitto
di domani. Volerò acuta per svuotare
la libertà dalla condanna di qualcosa.
***
Quando sono qui non ho parole
lascio fuori il mio uragano
incustodito, lascio a casa
la rabbia di cenere e carbone,
la tua bestemmia
pronunciata in basso, fino allo scorno
persuadendo il vizio dell’amore.
Le ore e i giorni ci portano contro
ci scontentano la vita, il letto,
questa miserabile ombra che scende
prima del tramonto, prima dell’inedia.
Certo non lo fai apposta ad andare via
fanno così le persone anziane, senza
speranza, fanno come te quando ti bagni
gli occhi e poi scompaiono naturalmente.
Il sognatore senza piedi
Quel desiderio inconfondibile di sparire
rimpicciolire nei filamenti di una lumaca
scendere nella terra in maniera sottile
sfumare al crepuscolo
tu fai così quando saccheggi il mio cervello
ti infili nell’insensatezza della mente
lo chiami sogno e io inquietudine.
Accendi la sigaretta dopo il bacio
per la prima volta contempli il soffitto
fai spazientire
le lettere stracciate nel cestino
le cartoline.
Poi imposti la direzione del braccio
lacrimogeno per non intossicare la gola,
servo la cena con dedizione.
Assottigliandomi verso l’uscita
brancolo spaiata e sbieca negli ultimi passi.
***
Mi sono allungata accanto a te l’altra sera
sembravo diluita nella lacrima distesa
avvertivo il cambiamento dell’intelligenza
le parole mi abitavano con una forza viva
forse il mio seno si preparava a rotolare via
dalla lontananza sfiorandoti come qualcosa
rimasta laggiù, in un giorno andato, accartocciato,
lavato dalla pioggia e scolorito
un tempo di paure o mille ceneri
come fossero teli che ci condensano e ingrigiscono
una seconda volta, ripetendo ombre in tanti soli,
città stellari dove vorrei vivere, fatte di lapilli
e piccole promesse. Sei tu il bradisismo di cristallo
sei tu il petto solitario e le mille donne nude
di schiena sullo scoglio, strette tra rose e ginestre
incorniciate
lì per te darò alla luce una calla dal cuore giallo.
Come riuscirebbe il mare a dire come mi sento e sento l’averti conosciuto e amato? Come dirti la lama bianca che mi ha sventrato il torace e poi il filo che ha ricucito, aperto, richiuso a strati, cellula dopo cellula, pazientemente, portando dentro i fiori, i pesci, il tuo cuore vivo?
Un trapianto, un’anima indifesa nella mia: eri un braccio d’edera, un cespuglio, una collina intera. Vieni a vedere chi sono diventata, inavvertitamente, apparsa sul mio volto, mentre da lontano, da lontanissimo albeggi gli attimi mutilati ai miei. Pulso attonita ogni debolezza che ti appartiene e resta vivo il moncone della mia scellerata grazia: ecco chi sono per genealogia compiuta. Una prodezza che il possesso e l’innesto della fibra può rendere vivo, possibile. Sono una razza nuova. Sono vecchia, per questo posso partorire nascite straordinarie e cuori sacri, l’aria degli anni infiniti e andati, l’infanzia, i rami vivi poggiati sulle spalle, tutti i segreti degli andirivieni, della fatica, del tremendo amore battuti a zig-zag in un crescendo verticale, un soprassalto a trama stretta. Un’altitudine, un traliccio in cui passa la filovia, il tram, il circuito di esperienze e storie, gli schiamazzi, le parole fioche, le abitudini che avevamo. Sono io la storia. Sembri lo scialle di mia madre sul collo freddo e bianco, come la barca arrivata sulla riva, sul litorale più vicino agli sciacalli, adesso sei sul mio collo, tra il cervello e le spalle, sei pensiero. Tu non tornare se pensi che qui puoi annegare, impantanarti centimetro dopo centimetro nella sabbia, nella mia vita che hai abbandonato. La mia età è sabbia appiccicosa e liscia, sono quel rimedio irrimediabile, infaticabile e chiaro che si attacca alla pelle, alla camicia, al resto dell’orgoglio, del midollo che scommettiamo quando ti lasciavo e ti riprendevo senza consolarti. Sono pentita di non averti sorriso abbastanza, ma, non procedere nella mente con tutto il peso minaccioso. Torna indietro nell’acqua limpida e lunare, in quel manto turchese e rotondo in cui resti immortale. Proteggiti dal tempo che passa e ti rende incerto ai miei occhi. Resta vivo e sii brezza. Vorrei custodirti nel palmo della mano, dove annoto lo scambio dei significati. Non perderti, vorrei non perderti nuovamente, questa volta per colpa mia, del mio andare avanti inesorabile nella dimenticanza, ma se ti ho smarrito, amore, devi accostarti con prepotenza alla mia assenza e piangere con me. Sì, ti sto dimenticando e stai andando lontano alla svelta. Queste mattine, in cui scrivo come bisogno naturale, mi abbandono alla consapevolezza della radice che siamo stati, che sei, che eri. Quando mantengo le distanze dalla fine procedo in uno stato di ingegnosa eccitazione e mi sforzo di apparire un’altra, di sembrare un risentimento intatto, per niente scusabile. Per questo devo ripetere il tuo nome, il mio nome, la storia che ci ha chiamati.
Fino alla parte scomposta di un tramonto
I nervi entrano ed escono dalla guerra
invocano la grazia solenne
del ritorno. Non ignorerò l’ardore di chi
siamo stati, sarò vigile ogni sera
quando le peonie sfioriranno
sezionerò il tramonto e ogni segno del creato
sul filo esasperato del mare aperto. Mi allungherò
fresca d’amore sotto al soffitto
di domani. Volerò acuta per svuotare
la libertà dalla condanna di qualcosa.
***
Quando sono qui non ho parole
lascio fuori il mio uragano
incustodito, lascio a casa
la rabbia di cenere e carbone,
la tua bestemmia
pronunciata in basso, fino allo scorno
persuadendo il vizio dell’amore.
Le ore e i giorni ci portano contro
ci scontentano la vita, il letto,
questa miserabile ombra che scende
prima del tramonto, prima dell’inedia.
Certo non lo fai apposta ad andare via
fanno così le persone anziane, senza
speranza, fanno come te quando ti bagni
gli occhi e poi scompaiono naturalmente.
Il sognatore senza piedi
Quel desiderio inconfondibile di sparire
rimpicciolire nei filamenti di una lumaca
scendere nella terra in maniera sottile
sfumare al crepuscolo
tu fai così quando saccheggi il mio cervello
ti infili nell’insensatezza della mente
lo chiami sogno e io inquietudine.
Accendi la sigaretta dopo il bacio
per la prima volta contempli il soffitto
fai spazientire
le lettere stracciate nel cestino
le cartoline.
Poi imposti la direzione del braccio
lacrimogeno per non intossicare la gola,
servo la cena con dedizione.
Assottigliandomi verso l’uscita
brancolo spaiata e sbieca negli ultimi passi.
***
Mi sono allungata accanto a te l’altra sera
sembravo diluita nella lacrima distesa
avvertivo il cambiamento dell’intelligenza
le parole mi abitavano con una forza viva
forse il mio seno si preparava a rotolare via
dalla lontananza sfiorandoti come qualcosa
rimasta laggiù, in un giorno andato, accartocciato,
lavato dalla pioggia e scolorito
un tempo di paure o mille ceneri
come fossero teli che ci condensano e ingrigiscono
una seconda volta, ripetendo ombre in tanti soli,
città stellari dove vorrei vivere, fatte di lapilli
e piccole promesse. Sei tu il bradisismo di cristallo
sei tu il petto solitario e le mille donne nude
di schiena sullo scoglio, strette tra rose e ginestre
incorniciate
lì per te darò alla luce una calla dal cuore giallo.
http://www.lavitafelice.it/scheda-libro/rita-pacilio/prima-di-andare-9788877996006-367483.html
https://limeslitere.wordpress.com/2016/08/22/rita-pacilio-prima-di-andare-la-vita-felice-edizioni-2016/
https://cosmopoliblog.wordpress.com/
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