Recensione - Rita Pacilio su 'Brezze moderne' di Pietro De Bonis - Lupo Editore



Brezze moderne
di Pietro De Bonis

Commento di Rita Pacilio

Spesso le parole ci portano lungo strade imprevedibili facendoci entrare in confidenza con le cose del mondo, in una quotidianità a volte ignota a chi non sa percepire l’altro da sé come una ricchezza, una crescita, un confronto. La poesia coopera con il nonsenso, ma anche, e soprattutto, con gli slanci interiori, giustificabili e incredibili, dell’esorcizzazione della fine, sia essa amorosa/amorale/intima oppure fine sociale, cosmica. La scrittura poetica o in prosa del nostro tempo storico si spinge verso un’avanguardia generalmente goliardica, eccentrica, esuberante: l’esigenza è di voler dire, e lo sforzo di dire è davvero tanto, più o meno in coro, che lo spazio della poesia è imprendibile dalla politica della decostruzione del vero. Anche Pietro De Bonis si muove in questa direzione accrescendo, con le sue pagine di Brezze moderne, edito da Lupo Editore, l’urlo perpetuo che riflette l’urgenza di cogliere ovunque l’importanza del cogitare e dell’agire intellettuale. In questa raccolta di versi misti alla prosa l’autore non è astratto o antifigurativo: anzi, il lettore si trova di fronte a innumerevoli immagini, raccontate e dichiarate, in cui sono riflesse le risposte alle innumerevoli domande che l’uomo contemporaneo si pone. Diventa importante interrogarsi sulle scelte estetiche del fare poesia oggi, per questo motivo si rischia di ritoccare le scelte metriche e di dare un doppio fondo alla parola significante. L’amore, il tempo, i valori umani, la geografia delle essenze diventano i temi cardini su cui poggiare un progetto comunicativo: De Bonis ci prova con i propri strumenti espressivi non rimanendo scettico di fronte al limite possibile cui spingersi. Le parole rimandano a più sensi grazie ad un lavoro analogico e metaforico che si presta alla suggestione dei gesti: Smettila di scapigliarmi i capelli e inizia a scapigliarmi il cuore. L’attinenza al ciclo vitale va ricercata, quindi, nell’esperienza fragile e rilevante dell’ancestrale vastità antropologica.

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