Recensioni - Adua Biagioli per 'L'amore casomai' di Rita Pacilio, LVF, 2018

“L’amore casomai” di Rita Pacilio è una raccolta di racconti brevi caratterizzati dall’accento poetico del sintetismo, in cui l’autrice invita a prendere atto che non è questo il luogo in cui è possibile rinunciare a qualcosa, non lo fanno dopo tutto, i personaggi attraverso le loro azioni e il loro pensiero. Non è il luogo in cui si rinuncia al tempo o ai tempi, all’ironia nel bene e nel male, all’animo umano che si depreda del suo essere definito, e così pure non si rinuncia al linguaggio incalzante, tagliente, talvolta intelligentemente ‘sfacciato’ che divide fra loro momenti staccati.
Un susseguirsi di testi che, sebbene assomiglino ad episodi, sono collegati fra di loro dalla tematica affrontata, di cui i protagonisti si fanno portavoce e agenti, vivi, di un vissuto ora ricordato, ora desiderato.
Aleggia nel percorso, una solitudine di fondo che viene scolpita come ‘un tatuaggio’, di cui ci accorgiamo soltanto nel momento in cui qualcosa di significativo è accaduto, il flash della vita che spontaneamente si incastra alla parola, quando attraverso immagini piccanti, quando attraverso metafore o, al contrario, negando la metafora stessa, per dire che ‘quella cosa’ è esclusivamente ‘quella’ cosa.
Si pensi alle occasioni in cui l’io si ritrova in un luogo che diventa espediente o meccanismo di difesa, mentre la vita, che continua a scorrere ci riporta a un’amarezza rivelatrice di quanto, proprio sotto quelle ‘pietre nere’ un giorno, ‘qualcuno si è amato’, e siamo stati proprio noi; oppure si pensi a quando amaramente ‘si scompare per solitudine’, quando ‘nessuno parlerà più di noi’, che diventiamo grovigli privi di parole. Ci troviamo a constatare che l’amore guarisce oppure la verità di un io che soffre, che rifugge o resta ad ascoltare la pesantezza o la leggerezza di essere solo ciò che è.
Non si tratta di una facile lettura, quella de “L’amore casomai” ma di un’acuta riflessione sull’essere anche quando la brevità dell’assunto, porterebbe in altri luoghi. Ogni personaggio è in cerca e si cerca, talvolta involontariamente, per trovare una identificazione, realizzando di non assomigliare a nient’altro che a se stesso (devi dare un nome a questa via che porta/ invece sono io. Sono io./La penitenza della tara).
All’amore, non possiamo dare un nome, si chiama semplicemente come si chiama. E’ l’incognita di un sentiero portante che conduce all’altra incognita,  quella identitaria in cui è possibile ‘fare centro con il posacenere’. E neppure importa che il nome dei protagonisti sia definito o indefinibile, possiamo essere una L o una G, una Lei o tutte le lettere dell’alfabeto, talvolta i nomi ‘si inghiottono per intero e senza conoscenza’ oppure si resta a metà chiusi ‘in un elenco con un’età, un codice, una denominazione, una diagnosi’, come ci restituisce in maniera del tutto originale, l’autrice. E’ la danza, l’avere danzato, quello che resta, mentre ciò che è destinato a cadere risulta necessariamente essere la maschera che abbiamo indossato.
Una nota degna di attenzione è la scelta dei titoli di ogni racconto, che indicano tempi, orari, stagioni, lettere, per aprirci all’accadere o all’accaduto: niente si può aggiungere a ieri, ci ricorda Rita. Intanto è irriducibile il tema del giuoco delle parti, il recitare o quel volere essere ‘o tutto o niente’ , individuando nel mare delle personalità, le tipologie dell’umano, escludendo ogni sorta di moralismo che etichetterebbe l’io in inutili gabbie.
Il tempo viene valutato nelle sue polarità del distanziare e dell’avvicinare, ‘le incomprensioni del tempo’ sono la ‘regola elementare della comunicazione’ mentre all’interno, ‘gli attimi dilatano gli anni e le attese’ quando il momento è ‘quel viaggio in cui tutto può accadere’.
Suggestivo l’uso del linguaggio nel racconto breve di Pacilio, a sua volta formato da brevi frasi in una sorta di narrativa poetica, interrotta a momenti di pura poesia: il passaggio volitivo letterale del pensiero dei protagonisti che si chiedono, si domandano, si rispondono, in un lavoro preciso, in cui ogni elemento slegato si lega, allo stesso tempo, per diventare colla dell’intero testo.
Così alla fine ci chiediamo:
L’amore in tutto questo, che cos’è? Sappiamo che percorre il libro sottilmente, sappiamo che ‘vorrebbe essere’: nei gesti, nei desideri, nei momenti persi in un tempo veloce. Forse neppure l’amore, ha realmente un nome definito, così che alla domanda ‘Mi ami?’ la risposta conseguente non incanta, ma ci rivela che ‘è un’esplorazione troppo intima per la distanza’. Ci rendiamo conto che ogni personaggio è solo, ha un destino unico e particolare: nessuno gode a pieno di una felicità ricercata quotidianamente o nei desideri nascosti o mancati.
E alla domanda “L’amore dov’è?” Ci può essere risposta? E’, l’amore, in una cucina, in un terrazzo, in una camera in penombra, in un sogno, in un addio, in un’amarezza, nelle cose che si toccano, in un corpo che desidera, negli snodi e nei segreti della vita di chiunque? O forse che l’amore, semmai, sia quel “casomai”, un diventare per essere.
E se ci proviamo a chiedere, l’amore con chi dovrebbe essere? Chi può saperlo e chi può giudicarlo? Non basterebbe‘sgranare un intero rosario’.
Forse l’amore può essere quella libertà cercata disperatamente nella soglia, ma che non trova mai il perfetto completarsi con le nostre aspettative; forse l’amore può essere un vizio, una necessità, un’urgenza, la ‘forza che non sai direzionare’, scrive l’autrice. O forse, la pecca, sta proprio in quel volersi accontentare di ciò che mai ci soddisfa interamente, ma che rincorriamo perdutamente nei grovigli di un pensiero inconfessabile, a scapito e al prezzo impagabile della nostra anima.
Certo è che l’Amore, ci suggerisce l’autrice, “non dice – non voglio fare male” ma semplicemente dice “voglio esserci”.
Adua Biagioli Spadi (Diritti Riservati)



Poesia - Diario di Rita Pacilio, 19 agosto 2018


Diario di Rita Pacilio
19 agosto 2018
La mia reazione al caos intellettuale, ai pareri apparsi sui social in questi giorni, alle innumerevoli opinioni prive di interiorità e umanità, è il silenzio. Ancor meglio, il silenzio e la solitudine. Sono stanca di stare al mondo in questo modo. Siamo tutti in pericolo per la negligenza umana, per l’incompetenza e la sciatteria. La superficialità comporta gravi rischi, è sempre un errore e non capisco come mai, questo semplicissimo concetto, non venga compreso da tutti. Mi sento malata, malata di delusione e impotenza. Non ci sono cure, non ci sono vie di uscita e non guarisco. Appartarsi, ritirarsi, fare il percorso a ritroso, regredire nel tempo e di fronte al tempo, sembra essere una comoda soluzione. Potrebbe apparire un pensiero melodrammatico, forse è drammatico. Vado indietro come per arrivare all’origine, correggere via, via qualche mancanza commessa, giungere al grembo più piccolo e sufficiente a darmi aria. Non è più ospitale il mondo. Mi sento messa alla porta: ogni giorno ho di fronte un porto chiuso, percorro un ponte frantumato, naufrago su un gommone sgonfio e in alto mare. Intorno è diventato tutto enorme e inutile, aggressivo, ostile, nemico acerrimo. La libertà ha ceduto il posto al libero arbitrio, mi chiedo se per legittima difesa. Le altezze si sono spianate, appiattite. Sono morti i livelli, i gradi, le sfumature delle differenze. Sembra che le parole siano state svuotate del senso dell’Amore. Si sono ribaltati i cardini, si è rovesciato il bicchiere mezzo pieno. Questa tiepidezza, che diventa sempre più livore, mi soffoca. Mi sta stretto il progresso esasperato, il grande centro, la maestosità del disordine, dell'incuria, la mancanza di un bacio. Per questo motivo sto scappando. Senza Amore non esiste autenticità. Mi chiedo: perché abbiamo svuotato i borghi, le contrade, i piccoli paesi? Ho urgenza di farmi proteggere dall’ombra di un albero, da un rudere essenziale, da una roccia nuda e assolata, da uno scoglio verde e vivo. Scappo e non so se ho voglia di tornare.