Poesia: La poesia, la critica e il mondo. Appunti e riflessioni a cura di Rita Pacilio - articolo uscito sul blog ParolaPoesia

l poeta e il critico letterario militante

Enzensberger, all’inizio degli anni Sessanta, affermò che la poesia moderna «deve essere non soltanto conosciuta, ma criticata: non è più possibile separare il produrre dalla critica». Il 27 maggio 2012 si legge su ‘Il Sole 24 ore’ un articolo di Alfonso Berardinelli da cui ho tratto un pensiero: ‘… anche la tradizione classica prevedeva il poeta "doctus" e il poeta-critico: da Orazio a Dante fino a Coleridge, Leopardi, Heine. È solo in questi ultimi decenni e soprattutto dagli anni Settanta in poi, dopo Pasolini e Zanzotto, che le cose sono cambiate. Si ha l’impressione che i poeti siano diventati così innumerevoli soprattutto perché credono che la poesia sia un genere letterario senza regole e che non richiede a nessuno di avere qualcosa da dire. Tanta malintesa libertà ha però "liberato" la poesia da un pubblico di lettori e dal giudizio critico, riducendo un genere prima ritenuto arduo fino all’ascetismo in una terra di nessuno a cui chiunque può accedere.’
Il liberalismo poetico non ha fatto altro che ingabbiare la poesia stessa in una forma che ha strattonato la metrica e il contenuto, cioè ha sottovalutato ‘l’invenzione formale che è una configurazione, una strutturazione del contenuto’(Biagio Cepollaro). Lo stile "creative writing” proposto dalla poesia americana (ricordiamo gli eccellenti e raffinati lavori di William Carlos Williams) ha portato la scrittura verso uno stile scevro da forme retoriche utilizzando l’andare ‘a capo’ e l’assenza di punteggiatura o la sospensione della spaziatura del foglio, come una nuova forma di fare poesia. Infatti la categoria postmoderna dei poets si sofferma su caratteristiche, ora intimistiche, ora socio filosofiche, liberandosi dall’obbligo della forma per entrare nella pratica del verso libero quasi come un’ acquisizione e una riappropriazione di libertà. La legittimazione, da parte della critica moderna, a ‘fare poesia’ in questi termini, ha diffuso la concezione che il poeta è in grado di affinare l’estro lirico nel suo verso libero considerato universalmente oggettivo, staccato quindi, dal suo racconto personale. Di qui la pullulazione di scritti di poesia che hanno incrementato la nascita di nuove Case Editrici, di laboratori di scrittura creativa e di salotti letterari utili a diffonderne la produzione. In realtà la visione oggettiva delle cose appartiene solamente a pochissime genialità poetiche spesso offuscate da accademici che hanno prestigio nell’ambito letterario e che si vestono da poeti essi stessi o da critici letterari, senza, però, aver mai militato nella critica. Per una serie di motivazioni spesso contraddittorie con i valori classici e con i canoni accademici, vengono proposti elaborati di autori emergenti a cui appartengono pensieri soggettivi, legati a un lavoro introspettivo limitato alle proprie esperienze e slegate dal contesto spazio – temporale. La poesia si trasforma in un coro di intimità liriche che inducono la critica moderna a rivederne forme e contenuti. La realtà in poesia induce al superamento della concezione tradizionale rischiando di cadere in pagine di diario di scarsa qualità poetica. Fare poesia oggi significa andare verso la tradizione (latina, francese, italiana) ben consapevole del valore morale, anche, di una forma e di una disciplina così afferma Maria Luisa Spaziani in un’intervista rilasciata a ‘Uomini e Libri’ nel 1986.  Va anche sottolineata la stratificazione che si è creata, nel tempo, tra i poeti: il poeta importante, colui che decisamente conserva la sacralità della poesia e i poeti minori, che sono numerosissimi e che si avviano, come se fossero in un limbo, verso l’Altare dell’arte poetica. Nicola Gardini dice che il poeta minore scrive del presente ed elabora poesie d’occasione (un lutto, un amore …) senza avere nessuna biografia da presentare. I poeti importanti portano avanti un pensiero filosofico e si adoperano a diffondere al mondo le proprie idee. ‘Mentre i poeti importanti sono traducibili e sono a loro volta traduttori e critici, il poeta minore non è traducibile. Gli importanti sono poeti linguisticamente vari e ricchi, e prolifici. I minori no. Gli importanti si evolvono, i minori no’ (Nicola Gardini). L’unicità non si può asserire se non è innata nell’Autore!  Sempre Gardini afferma che Rimbaud era già sacro in vita anche se non lo sapeva; infatti è il vero critico militante che stabilisce la bellezza poetica e la sottolinea a gran voce specificandone la rilevanza facendo uno sforzo notevole di responsabilità. È lecito pensare che il talento in poesia è liberato da un bisogno che si avverte sulla pelle, nel corpo e che ricorre sia all'ideologia del linguaggio metaforico che nel suo significato contenutistico e non ha appartenenza di genere. Chi è dominato dall’ars poetica avverte una forte attrazione e nello stesso tempo una sorta di repulsione della forma e dei costrutti semantici che riassumono la vocazione del dire in maniera espansa e che definiscono il senso di identità, di appartenenza. A volte questa consapevolezza porta il poeta a una irrequietezza intima che si manifesta in una impennata cosmica e in una visione del mondo plurima riconoscendo, nel suo essere, il bazar delle cose e le sue sfumature. Egli stesso diviene ‘il corpo della poesia’. Purtroppo bisogna necessariamente fare i conti con l’oggettività del senso reale dell’universo senza lasciarsi condizionare dalla volontà di poterlo controllare. Spesso è proprio la scrittura delle donne che  riesce a ingabbiare il linguaggio poetico nel corpo. La ‘dizione’ diventa sciolta proponendo ogni immagine esperienziale della propria materia corporale per sottolineare, nel proprio ‘io lirico’, una sfrontatezza di personalità e allo stesso tempo, seppur in modo contraddittorio, avallare la cultura di sostanza e del rigore poetico. Massimo Onofri sottolinea che ‘ la scrittura, proprio a partire dalle pagine della Wolf, implichi problemi di non poco conto ’. ‘Cosa accade quando il tema darwiniano (Il piacere 1889) e maschilissimo trapassa nella Sardegna agro-pastorale d’inizio secolo e incontra la scrittura di una donna di grande talento? Ne vengono fuori libri di non poco significato. Cito a caso: Elias Portolu ( Grazia Deledda, 1903), Cenere (Grazia Deledda, 1903), L’edera (1906), Colombi e sparvieri (Grazia Deledda, 1912), Canne al vento (Grazia Deledda, 1913). Laddove, per certi comportamenti, la donna paga socialmente sempre dazio molto alto: sicché il trionfalismo fallico dannunziano finisce per convertirsi in desiderio strozzato, dolore e vergogna, umiliazione e coraggio, rimpianto e rimorso. Ci pare evidente, continua Onofri, il presupposto antropologico, immutato di segno, diventa tra i primi responsabili, per le misteriose ragioni dell’arte, della bellezza dell’opera’. Ci poniamo la domanda se un’opera debba essere valutata per i suoi canoni estetici o per razza, sesso o classe sociale. Il discorso è complesso: la buona scrittura spesso è nascosta e segue il principio del relativismo culturale su cui si basa la propria forza. La critica letteraria militante (quando la critica è vera è sempre militante e antagonista) o illuminismo letterario, così come afferma Massimo Onofri, dovrebbe riformulare e riproporre i doveri di una ragione, sia pur minima, fallace e certo relativa, ma ancora universalizzabile, confortato dalla certezza che la critica resti, nonostante tutto, l’unica possibilità dell’uomo e del cittadino per uscire dal suo stato di minorità. Onofri va oltre le definizioni di Giacomo Debenedetti (la poesia, il romanzo che leggiamo saranno nostri, ci daranno la certezza di essere nostri, quando li avremo assimilati a qualche esperienza più profonda e sedimentata, che ci garantisca ormai di non sfuggirci più. Il rintocco che ci avverte che stiamo sulla strada buona è quello che si sprigiona dal fondo … e ci garantisce che il verso che leggevamo o il romanzo o il capitolo di romanzo  ha arricchito la nostra conoscenza del destino, del senso e dei fini della vita) e si pone interrogativi cruciali che rimanda a chi vuole impegnarsi in modo sostanziale nell’esercizio di scrittore/critico letterario: sino a che punto la critica letteraria può valere anche come una forma di critica della vita? E poi: la critica militante può diventare a tutti gli effetti se stessa, attingere alla sua più profonda verità, proprio se si va a costituire come critica della vita? La teoria della letteratura con l’avvento del nuovo critico si è fortemente opposta al classico ‘giudizio di valore’ che andava di moda nel Settecento. Onofri ci consiglia di emanciparci da Barthes che a sua volta si distaccava dal giudizio di gusto sostenendo che è dunque giusto affermare che nel momento in cui nasce una scienza della scrittura, che è la scrittura stessa, muoiono ogni Letteratura e ogni Critica. Ci troviamo, quindi, di fronte a valutazioni soggettive ed emozionali quando esprimiamo il ‘gusto’ dell’opera che abbiamo di fronte. Onofri ci ricorda Kant: bello è ciò che piace universalmente senza concetto. Ma lo stesso Kant negava l’oggettività della bellezza senza farla coincidere, però, con ciò che piace nell’arbitrarietà dei sensi.  La critica non è mai dogmatica anche se è intrisa da un esercizio di responsabilità senza che mai e poi mai il critico si possa vestire da pubblicitario al servizio dell’Editoria commerciale o delle riviste di settore o in voga. Citando sempre Onofri, ne ‘La ragione in contumacia’ 2007, il critico è colui che sa inventare tutti gli argomenti per verificarlo. Ecco: il giudizio di gusto non è il semplice assenso che il critico assicura ad un’opera che irrompe nel mondo, non è la sua dogmatica, gratuita, celebrazione. Il giudizio di gusto nasce, semmai per garantirne il mistero e giustificarne l’essenza.
Recentemente mi sono imbattuta in un articolo sul web in cui ritrovo un pensiero importante sulla critica militante di Annalisa Andreoni che riporto qui: «il compito di un buon giornalista, anche quando scrive di cultura, rimane prima di tutto quello di informare il lettore in maniera intelligente ed equilibrata, e non quello di validare la bontà di quello che viene proposto. E neanche voglio riferirmi agli interventi, sempre più frequenti, di scrittori che parlano di altri scrittori, i quali spesso scrivono di quanto sono bravi i colleghi per dovere di scuderia. Ma chi fa professione di critico letterario svolge, o dovrebbe invece svolgere, un mestiere diverso.
Guardando alla situazione generale, è un dato di fatto che negli ultimi anni si siano avvicinate pericolosamente la pratica della promozione e la pratica della critica. Il circo Barnum dei premi letterari ha contribuito, forse più di ogni altra cosa, a questa commistione, reclutando tra le file dei giurati molti critici, che finiscono, chissà come, per premiare le scelte più sponsorizzate dalle case editrici. Ma anche lo svilimento della pratica del consulente editoriale, un tempo gloriosa, e la proliferazione delle agenzie letterarie giocano un ruolo non irrilevante. Ora, la promozione è una cosa importante e legittima, perché un libro è prima di tutto un prodotto, al quale hanno lavorato molte persone, il futuro delle quali dipende dalla sua buona riuscita. Se io su un giornale leggo invece un critico, voglio che sia capace di discernere quanto in un romanzo c’è di volontaristico, mal riuscito e velleitario. Mi aspetto che sia in grado di analizzare lo stile e la lingua di un autore, di individuare se vi sia o meno uno scarto rispetto alla comunicazione verbale quotidiana e di distinguere il lavoro profondo che uno scrittore vero fa sulla lingua dalla retorica un tanto al chilo; di capire quanto, nell’autofiction oggi praticata, sia sbrodolamento diaristico, e quanto nella trama ci sia di trito e già visto persino nelle telenovelas; mi aspetto, infine, che si prenda la responsabilità di valutare esteticamente l’oggetto di cui mi parla in quanto opera letteraria e di dirmi se vale la pena che io, lettore affamato di buona letteratura, lo legga oppure no. Il critico militante dovrebbe tenere bene distinta la propria funzione da quella del sociologo della letteratura, al quale tocca studiare e spiegare anche tutto ciò che va sotto il nome di paraletteratura, inclusi i romanzi che una volta si chiamavano d’appendice. E’ il sociologo della letteratura che deve studiare perché si vendano centinaia di migliaia di copie di questi testi e dirci in che cosa sono rappresentativi della nostra contemporaneità. Il critico letterario, invece, non dovrebbe prendere sul serio tutto ciò che viene pubblicato, sulla base dell’assunto che la realtà è questa e che il suo compito è quello di interpretarla.
Se non tocca ai critici militanti dire che un romanzo è mediocre e non merita affatto di essere letto e studiato come si fa con la buona letteratura, a chi tocca? E non mi riferisco tanto alla pratica della stroncatura, in cui i critici si cimentano talora sui giornali con gli autori che non sopportano, quanto all’usanza, molto meno praticata, di tener alta l’asticella qualitativa con gli scrittori ai quali guardano con benevolenza. E’ innegabile che la letteratura, oggi, salvo poche voci note, soffra della mancanza di un tale ruolo».

La donna che scrive

Si sa che quando chi scrive è una donna, l’autrice deve passare dalla categoria poetesses (autrici emergenti) a  women poets (autrici affermate) soffrendone tutte le tappe della critica, soprattutto maschile. La scrittura, soprattutto quella poetica, non può essere declinata secondo il genere. Diventa scrittura appartenente al mondo, tutta quella parte letteraria che sa diventare androgina. Androgino è un termine che viene fuorviatamente usato nel linguaggio moderno come sinonimo di ermafrodito. Questa equivalenza tuttavia non è tecnicamente esatta, poiché ermafrodito è il termine tecnico che, in zoologia e in botanica indica la presenza contemporanea in un individuo di apparati e caratteri sessuali maschili e femminili che produce comportamenti differenti a seconda delle specie in cui si manifesta e la modalità riproduttiva tipica delle specie interessate. L'organizzazione riproduttiva delle lumache, infatti, e delle ostriche, ad esempio, si definisce ermafroditismo e non androginia. Il termine androgino viene invece usato per indicare in un individuo la coesistenza di aspetti esteriori, sembianze o comportamenti propri di entrambi i sessi. (Wikipedia). Le poetesse esagerate sono sfamate dagli uomini, sostiene Davide Rondoni. A mio avviso le poete e i poeti sono sfamati dagli uomini, ma, soprattutto, da Dio perché la genialità della scrittura femminile o maschile, appartiene al Creato che è autentica incarnazione della Grazia!' L’Universo sfama, quindi, la genialità della scrittura e compie un atto di grazia prescindendo dal genere. In questa fase contemporanea di mutamento sociale la scrittura fa da specchio allo scenario. ‘Assenza, marginalità, ombra’ sono le aggettivazione che Ferrario Denna assegna al tentativo di affermazione attraverso la  penna delle donne del ‘900. Le donne/autrici, del secolo scorso, non hanno seguito, nel loro percorso culturale, correnti predefinite: infatti molte sono apparse come voci contrastanti e spesso anche contraddittorie. Questo ha definito una sorta di isolamento o addirittura un nomadismo intellettuale femminile che non ha mai trovato collocazione nei saperi maschili già codificati. Fino al ‘900 la figura femminile era l’oggetto di attenzione di poeti, scrittori, pittori e artisti: quando la donna colta ha voluto utilizzare la  parola per potersi raccontare attraverso un linguaggio sentito e immaginato, è diventata la musa ispiratrice di se stessa. Gli scritti di Ada Negri (Lodi 1879 – Milano 1945) avevano una connotazione sentimentale, quelli di Sibilla Aleramo (Alessandria 1876 – Roma 1960) sfumature intimistiche/personali e quelli di Amanda Guglielminetti (Torino 1881 – 1941) erano connotati da scene ironiche e trasgressive,  in sintonia con l’affermazione di una identità certa (amo dunque sono). Tutti hanno avuto come tematica centrale e comune l’amore inteso come concetto fortemente riconosciuto attraverso cui si è identificati a livello universale, nonostante la passione amorosa potesse essere rappresentata con gradazioni di colori diverse.  
La scrittura femminile del ‘900 può essere accorpata in due grandi filoni che ne definiscono la concettualità e la filosofia: volumi che narrano il proprio vissuto emozionale/esistenziale/sentimentale (lavori questi che non hanno un alto livello letterario, ma che definiscono il quadro personale di chi scrive in un micro e macro sistema familiare-socio-politico) e testi che sottolineano lo smarrimento identitario di chi vive con sofferenza la pauperizzazione culturale ottocentesca. Ogni poeta è attraversato da eventi psicologici e sociali che influenzano la sua scrittura definendone lo spazio e il tempo su cui la critica muove le proprie argomentazioni di valutazione. Molto spesso si leggono forme linguistiche contaminate da un egocentrismo scarno che non appartiene al collettivo e in cui, troppo di frequente, il lettore non si identifica. La Poesia è un continuo ritorno al reale (Yves Bonnefoy) e ci restituisce il senso delle cose così come sono. Come un'antenna sensibile che registra le sequenze delle immagini allusive e fuorvianti: si aprono vie tra le parole con le parole e gli usi imprudenti o saggi dei linguaggi che mettono in pratica l'ostinata volontà di suonare le esperienze della propria terra dove i segreti sono prigionieri. Le formule creative passano da sforzi ora puramente estetici, ora celebrativi/sacrificali; i cori lirici percorrono ritmi orizzontali e verticali che dalla terra e dalla penitenza/tormento carnale salgono allo spirito, al cielo. Perché la necessità di scrivere? La necessità interiore è la legge fondamentale dell’arte? La risposta è sempre pirandelliana: un lascito al vento, un generare, un bisogno di dare ed un ritorno, un entrare nelle parole, quindi, come nei mille personaggi che le rappresentano e poi liberarsene. L’IO – TU della comunicazione verbale non scioglie il legame dalla poetica tardo romantica che salta tutta la tradizione ch va da Benn a Brecht: il TU, a cui va tutta la comunicazione del mondo, diventa variegato e ambiguamente polifonico. Esiste quindi una possibilità estetico-poetica legata alla nostra vera potenza, il poter navigare negli estremi con la violenza e la fragilità che a noi compete. Noi scrutatori di mondi anche onirici, che necessitiamo di dissetarci alle fonti di infinite sfumature ed angolazioni di estetica, stile e proiezione mentali (Boccioni).
Ciò che risponde all’estetica, intesa come immagine di sé e non della scrittura, è sempre la donna. Negli ultimi anni appaiono performer del proprio corpo, modelle dalla consistente immagine fisica che va ben oltre la metrica e la parola di senso. Si tratta di autrici che, raggiungendo con la propria età giovane e la bellezza dei lineamenti, i potenti della letteratura odierna, mettono in pratica la famosa poesia di Boudelaire:
Io sono bella, o uomini, come un sogno scolpito,
e tutti v’ho sfiancato sulla mia carne quieta,
ma l’amore che so ispirare al poeta
è, al par della materia, tacito ed infinito.
Sfinge velata in soglio, su nel cielo m’esilio;
nel mio petto di cigno un cuor di neve dorme;
aborro il movimento che scompone le forme,
né mai ad una lacrima né ad un riso m’umilio.
I poeti, dinanzi alle mie grandi pose,
di cui rubo alle statue l’esemplare superbo,
spenderanno la vita in fatiche studiose.
Io, per stregarli e farmene docili amanti, ho in serbo,
specchi ove senza macula ogni cosa discerno,
gli occhi, i miei larghi occhi dal lume sempiterno!

Ma Gadamer (L’attualità del bello) interrompe il mio discorso, su cui ritorno attraversando l’intimità, sostenendo che Nell’opera d’arte non si rimanda semplicemente a qualcosa, quanto piuttosto che in essa vi è propriamente ciò a cui si rimanda. In altre parole : l’opera d’arte significa un accrescimento dell’essere.
Dicevo, l’intimità, il rapporto personale, sotterraneo e sotteso tra i poeti non dovrebbe apparire 
sdolcinata, dolciastra, placida, ma la cosa più esigente. Mentre ce la si presenta spesso e volentieri come una comodità dei sentimenti, un ritiro lontano dalle aggressioni del mondo esterno, la messa al riparo dai suoi colpi e dalle sue violenze, l’intimità è in sé sconvolgente ( F. Jullien - sull'intimità) e molto spesso confusa con la fisicità dell’autrice. Si dovrebbero citare nomi di poeti che consentono o meno l’ingresso della voce poetica femminile, a cui credo, vada attribuita la responsabilità e l’abilità dell’annusare la femmina giusta o adeguata al caso per la propria ispirazione del momento e/o, ancora peggio, per la soddisfazione dei propri istinti mascolini.


Il corpo come metafora comunicativa: il poeta è solo nel suo corpo emotivo?

Così la metafora corpo diventa motivo di comunicazione e introspezione del mondo. Un essere umano è una parte di una totalità chiamata da noi universo, una parte limitata in tempo e spazio. Egli fa esperienza di se stesso, dei suoi pensieri e delle sue sensazioni, come di qualcosa di separato dal resto, una specie di illusione ottica della sua consapevolezza. Questa illusione è come una prigione per noi, ci restringe ai nostri desideri personali e all’unione con poche persone, le più vicine. Il nostro obiettivo è liberarci da questa prigione, allargando il nostro cerchio di comprensione fino ad abbracciare tutte le creature viventi e tutta la natura nella sua bellezza (Albert Einstein).
 Il senso di tutto quel che esiste è il suo essere presente (Cristoph Wilbelm Aigner) perché il poeta sa trovare la risposta alle domande sulla esistenza nell’accoglimento dell’immanenza concreta. L’uomo deve tendere al senso più profondo e sfuggente della vitalità e della morte delle cose per entrare nel mistero del cosmo, in sintonia con l’altro da sé. Nominare l’indicibile, l’inenarrabile, la difficoltà di prefabbricare una letteratura che sa riprodurre contemporaneamente la filosofia di Proust e Tolstoj, Sylvia Plath e Antonia Pozzi, Heidegger e Lévinas, Jaspers e Binswanger potrà permettere all’essere umano di uscire dal grigiore dei tecnicismi ricostruendo in noi emozioni meno ciniche da comunicare al TU - MONDO. Raccontami la forma di ogni lettera nello stesso modo in cui descriveresti le forme di un oggetto o di un luogo sconosciuto. Non dire che non puoi. Sai vedere, sai parlare, sai mostrare, puoi ricordare. Cos’altro serve? Un’attenzione assoluta per vedere e rivedere, dire e ridire. Non cercare di ingannarmi e di ingannarti. E’ davvero questo ciò che hai visto? Cosa ne pensi? Non sei forse un essere pensante? O credi forse di essere tutto corpo? (Rancière - il maestro ignorante)

Ogni emozione galleggia nelle vene del nostro corpo che si rifrangono, arrivando dalle varie stanze della memoria, nella luce dei nostri occhi. L’anima ci parla attraverso le sensazioni fisiche permettendoci di conoscere il ‘valore adattivo’ di noi stessi nella immediata percezione del sentimento come sentito e come vissuto concretamente. Un sentimento a cui bisogna mirare per alleviare le emozioni dolorose, che creano anche uno stato convulso di impotenza fisica, è la gioia. Eugenio Borgna nel suo lavoro Le emozioni ferite sostiene che la gioia è l'esperienza emozionale più fragile e insieme più metafisica. A differenza della felicità, la gioia non richiede uno stato di benessere prolungato: il suo tempo specifico, piuttosto, assomiglia all’ 'eterno presente" di cui parla S. Agostino, in cui confluiscono il passato e il futuro. La gioia si esprime nel sorriso, certamente, ma anche nelle lacrime: sono irrorati di lacrime gli scritti mistici di BIaise Pascal, di Teresa d'Avila e della giovane ebrea olandese Etty Hillesum, perita nel 1943 ad Auschwitz. In una pagina del suo diario leggiamo: "Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt'intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti". Tutta l'infelicità dell'uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo (Blaise Pascal) perché dallo sforzo fino alla non capacità di saperla vivere la solitudine è una condizione che ci ringiovanisce (Giacomo Leopardi).  Infatti tutte le angosce, le speranze inespresse, le attese hanno sembianza corporale quando il silenzio della solitudine affascina, sublima, avvicina, tende. Sempre Eugenio Borgna esprime in psichiatria la differenza tra la solitudine e l’isolamento  Perché nella solitudine, così ricca di vita interiore, il silenzio ha un suo eros e un suo proprio linguaggio: dice i nostri desideri più autentici. Il silenzio ha mille modi di manifestare qualcosa e di nasconderla, di indicare. Quando invece si è isolati, distaccati dal mondo, monadi dalle porte e dalle finestre chiuse, non si hanno pensieri ed emozioni da trasmettere agli altri. Senza più parole, si sprofonda in un mutismo che ha un'unica dimensione: quella dell'insignificanza. La solitudine non è solo un'esperienza interiore di pochi eletti, ma al contrario è una matrice ideale di cambiamento relazionale e culturale, politico e sociale, e in ultima istanza ragione di vita storicamente significativa. È indispensabile ritrovare i valori inalienabili della riflessione critica e della solidarietà, dell'impegno etico nella politica, del rispetto radicale delle persone, e delle loro differenze - trasferendo la coscienza di questi valori in quella che è l'azione quotidiana, la testimonianza personale di ciascuno di noi.
In un famoso passaggio tratto da l’epistolario tra Antonin Artaud e Jean Paulhan leggiamo Le idee che ho le invento soffrendole io stesso, passo, passo, io scrivo soltanto ciò che ho sofferto punto per punto in tutto il mio corpo, quello che ho scritto l’ho sempre trovato attraverso tormenti, tormenti dell’anima e del corpo. Questo esplicita quanto per il genio poetico la poesia nel corpo viene vissuta come atto analizzato in modo enfatico ma allo stesso tempo inconfessabile: è il corpo stesso che sa riconoscere la propria metamorfosi degradata e descritta così bene da Kafka nella Colonia penale. Il corpo  e le sue ferite diventano un nuovo organismo vitale come per Sanguineti o Ungaretti che cercano la pace definitiva nel corpo mondiale che storicamente ha vissuto orrori e persecuzioni.
vedo questo nascondiglio solenne
di cose da nulla
che fu il mio corpo.
(A.      Breton)
Il Poeta si mette in esilio in modo precognitivo: sceglie il distacco dalle cose per denunciarne le ideologie violente cercando la dignità, la libertà e la giustizia. Aldo Nove dice, parlando di Sanguineti, che il corpo è la poesia e non si dà pace mettendo in evidenza quanto il corpo possa essere tradotto come una barricata o una urgenza urlata contro la sopraffazione culturale e sociopolitica. Se c’è qualcosa che ‘va avanti’, che è sempre ‘qui presente’ (anche oltre se stesso, nel laboratorio della putrefazione) è il corpo. Il corpo che cresce, soffre, gode, si riproduce, si ammala, muore e si trasforma, nel ventre della terra, in altri corpi a venire. Il corpo singolo. Refrattario al Simbolo e ai suoi regni, di per sé evidente, resistente e ‘osceno’ nell’accezione sartriana di ciò che si pone come eotico (come deduttivo, che cerca ‘di condurre a sé’) ma non lo è necessariamente. Il corpo allegoria dantesca del viaggio, di età in età. Il corpo … è al contempo, nella trasfigurazione letteraria, il corpo di tutti, attraverso le generazioni, attraverso l’entrata e l’uscita dal corpo altro delle madri. (A. Nove). Il simbolismo del corpo viene anche tradotto negli elementi cromatici della spiritualità per cogliere meglio l’emblematicità del reale. Si muta in anima anche se livida essenza. Corpo e anima sono il nucleo abissale in cui convoglia il cosmo. Piacere e dolore qui si fondono, convivono e si scardinano nonostante Deleuze  in Cosa può un corpo? Sostiene che non si nasce liberi, non si nasce razionali. Si è completamente immersi negli incontri, ossia: siamo completamente in balia delle decomposizioni.
Resta la gioia di vivere come unica soluzione di salvezza. Natalia Ginzburg ci sottolinea che il piacere di vivere è quello del turista che visita i luoghi del mondo assaporandone le piacevolezze e le offerte ma trascurandone o rifuggendone gli aspetti vili, o malati, o crudeli; la gioia di vivere non rifugge nulla e nessuno: contempla l'universo e lo esplora in ogni sua miseria e lo assolve.

La poesia è un dio nefasto

Leggo molta poesia. Non amo chi se ne occupa in maniera approssimativa e deleteria, perché penso ci sia una grande confusione e molta influenza da parte di coloro che la criticano e la distruggono solamente per un motivo personale, apparentemente professionale. Bisogna avere sempre uno sguardo amorevole e profondo sulle parole visionarie dei poeti per lasciarsi condurre, con azzardo e fiducia, non solo verso la via dell’arte, ma, soprattutto, lungo il percorso di dialettiche e cognizioni che mettono a nudo la storia umana. Il lavoro svolto dai poeti evidenzia e rivela lo stato delle cose  in modo trasparente, sia in virtù della generosa genialità artistica, sia per la confessione filosofico-critica del mondo insita nelle opere. Attraverso il luogo e lo spazio della poesia si muovono parole e immagini che impastano e, nello stesso tempo, filtrano, la bellezza, il simbolismo del linguaggio, il desiderio visionario, le intuizioni sensibili e gli ascolti empatici. Bisogna avere l’anima e i sensi capaci di percepire e svelare il creato in modo relativo e potente per avvicinarsi pienamente alla poesia. Questo è il tentativo a cui tendo quando poso gli occhi sulle parole di un nuovo libro di poesie, che mi viene donato, i cui progetti validi e i pensieri ivi rappresentati, sono, per me, un’ulteriore possibilità di confronto, di stupore. È vero, si scrive troppo a dispetto della lettura e l’approfondimento culturale, molto spesso, viene tralasciato, omesso: non a caso alle presentazioni di nuove raccolte poetiche assistiamo a scene di assenteismo collettivo. Numerosi, però, sono gli autori che ambiscono a essere letti, annunciati, sostenuti e, frequentemente, questa ambizione/aspettativa diventa frenetica e controproducente, perché non si è concentrati sull’affidamento dell’opera e sul suo destino, ma sulla corsa verso l’agognato successo. La meraviglia di questo panorama resta il cuore dell’essere umano che è, inesorabilmente, al centro della parola poetica e, quindi, sotto osservazione da parte dei lettori e dei critici. Dalla parola poetica bisogna partire e lì bisogna fermarsi per arrivare al concetto fondamentale che la poesia è il luogo magico in cui i limiti artistici contengono l’abitabilità del mondo intero.
Le credenze intuitive sono dure a morire, come quelle che si riferiscono al movimento, e molto spesso vengono applicate alla poesia. Quando ciò accade si perde la direzione rispetto alle credenze originarie e all’impegno verso l’esistenza. L’artista applica, così, il coraggio della declinazione poetica svelando la giusta direzione, ma se chiedessimo a tutti coloro che scrivono poesie quanti libri hanno letto riceveremmo risposte che rientrerebbero in poche ed esclusive categorie. In tutti, comunque, riscontreremmo imbarazzo come fruitori del lavoro altrui. Subentrano dilemmi complicati in relazione al proprio stato emotivo e al linguaggio che da denotativo si modula in connotativo quando la creatività esiste e persiste. Spesso, però, lo stesso scrittore di versi, è portato ad analizzare la propria scrittura come carica di alta espressività senza misurarsi con la critica e senza affrontare alcuni equivoci di fondo. Infatti, l’arcana e sterile diatriba sul talento innato e acquisito avanza inesorabile alterando la comunicazione, quindi il confronto. Il tentativo di fornire modelli interpretativi validi per la valutazione si articola sempre di più a carico di poche voci che a volte sono sottomesse a condizioni lavorative e di mercato. La selezione/valutazione viene a identificarsi con il luogo comune diventando credenza. Come riuscire a essere fedeli a un libro? Come costruirlo e poi, come leggerlo? A volte sembra non ci sia scampo: molti lavori risultano inutili e sovrabbondanti per la letteratura che si stacca sempre più dal nome per diventare universalità, arte. Altri libri sono piccole gemme che fanno fatica a sopravvivere alla convenzione, al potere poetico.

Non sono molti gli scrittori che alla seconda lettura diventano più importanti, più grandiosi, la maggior parte di loro li leggiamo per la seconda volta vergognandoci di averli letti anche una sola volta, ci accade con centinaia di scrittori, non con Kafka e non con i grandi russi Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Lermontov, non con Proust, con Flaubert, con Sartre, che annovero tra i più grandi. Trovo non sia male il metodo di leggere una seconda volta gli scrittori che abbiamo letto una volta e ci hanno segnato, perché a quel punto o sono quelli ancora più grandi, ancora più importanti, oppure non val più la pena di parlarne. In questo modo evitiamo di portarci in testa per tutta la vita un’immensa zavorra di letteratura, che alla fine fa ammalare, ammalare a morte questa nostra testa, avevo detto questo a Gambetti al Pincio (Bernhard – estinzione)
 Mi metto in un angolo e osservo la scrittura delle giovani penne, leggo, giudico, a mia volta e, forse, senza le adeguate competenze, ma oggi più che mai, c’è bisogno di chiarezza, l’urgenza di smascherare tutti coloro che non sono amanti della buona scrittura, ma della propria visibilità. I serpenti, molto spesso, sono sempre al potere e gestiscono le menti illuminate (credo ci sia un sano e puro intellettualismo illuminato, molto di frequente offuscato dal suddetto potere gestito dai pochi nomi che fanno scena con falsa modestia influenzando i circuiti lavorativi, gestendoli per la propria visibilità). Faccio riferimento ai poeti e agli organizzatori/editori che supportano voci poetiche strumentalizzando il mercato e la critica che, in merito, è del tutto assente.
Questa classe elitaria deve agire come una macchina della conoscenza in grado di eludere il difetto principale della democrazia: l'impossibile ideale del "cittadino onnicompetente".
E' così che funzionano le nostre democrazie: con il nostro consenso.
Ciò che Lippman descrive non ha nulla di misterioso, è un fatto evidente.
Il mistero è che, pur essendone consapevoli, stiamo al gioco. Ci comportiamo come se fossimo liberi di scegliere e, in silenzio, non solo accettiamo ma esigiamo che un’invisibile ingiunzione ci dica cosa fare e cosa pensare. Come aveva capito Marx tanto tempo fa, il segreto sta nella forma (Zizek : l'illusione della democrazia - internazionale 3/11/2011)
E soffermandomi sui recenti articoli di Aldo Nove usciti su L’Espresso di gennaio/febbraio 2017 e di Davide Rondoni su Avvenire (gennaio 2017) vorrei aggiungere il pensiero di Flaiano  (Filosofia del rifiuto)
 Agire come Bartleby lo scrivano. Preferire sempre di no. Non rispondere a inchieste, rifiutare interviste, non firmare manifesti, perché tutto viene utilizzato contro di te, in una società che è chiaramente contro la libertà dell’individuo e favorisce però il malgoverno, la malavita, la mafia, la camorra, la partitocrazia, che ostacola la ricerca scientifica, la cultura, una sana vita universitaria, dominata dalla Burocrazia, dalla polizia, dalla ricerca della menzogna, dalla tribù, dagli stregoni della tribù, dagli arruffoni, dai meridionali scalatori, dai settentrionali discesisti, dai centrali centripeti, dalla Chiesa, dai servi, dai miserabili, dagli avidi di potere a qualsiasi livello, dai convertiti, dagli invertiti, dai reduci, dai mutilati, dagli elettrici, dai gasisti, dagli studenti bocciati, dai pornografi, truffatori, mistificatori, autori ed editori. Rifiutarsi, ma senza specificare la ragione del tuo rifiuto, perché anche questa verrebbe distorta, annessa, utilizzata. Rispondere: no. Non cedere alle lusinghe della televisione. Non farti crescere i capelli, perché questo segno esterno ti classifica e la tua azione può essere neutralizzata in base a questo segno. Non cantare, perché le tue canzoni piacciono e vengono annesse. Non preferire l’amore alla guerra, perché anche l’amore è un invito alla lotta. Non preferire niente. Non adunarti con quelli che la pensano come te, migliaia di no isolati sono più efficaci di milioni di no in gruppo. Ogni gruppo può essere colpito, annesso, utilizzato, strumentalizzato. Alle urne metti la tua scheda bianca sulla quale avrai scritto: No. Sarà un modo segreto di contarci. Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì. I quali si chiederanno che cosa non viene apprezzato nel loro ottimismo.

Se l'uom tra bara e culla
 si perpetua, e le sue croci
 son legno di un tronco immortale
 e le sue tende frale germoglio
 d'inesausto rigoglio,
 questo è cieco destin che si trastulla?.
(B.       Rebora)

Certe persone, io per esempio, erano condannate a vivere all’inferno durante la vita, per compensare il fatto di non andarci dopo morte, scrive Sylvia Plhat ne La campana di vetro. Rifacendoci agli scritti filosofici di Peirce deduciamo che la finzione (trasferendo il discorso alla scrittura) è il prodotto dell’immaginazione di qualcuno e possiede i caratteri di colui che la pensa. Il filosofo sostiene che nella nostra mente avvengono fenomeni estranei al nostro stesso pensiero, ma che assumono una valenza reale proprio perché si trasformano in cosa pensata indipendentemente dalla modalità con cui li pensiamo. Per questo motivo anche il sognare acquisisce realtà nella nostra mente a prescindere l’indipendenza dei caratteri del sogno e dall’interpretazione.  Ho sempre pensato che una certa umiltà della coscienza nei confronti dell'immaginazione onirica eviti dannose presunzioni e permetta sia al terapeuta che al paziente di accettare che un discreto numero di sogni sia refrattario a ogni tentativo di interpretazione. Il sogno rivela un continente psichico cui si può approdare da varie parti. Sono solito ripetere a me stesso e qualche volta al paziente: ogni interpretazione è valida tranne quella che pretende di essere l'unica vera (M. Trevi - dialogo sull'arte del dialogo)
Leggere una poesia diventa un pensiero creativo e un canale di comunicazione con l’immaginazione. La sintassi, la versificazione, il ritmo, la melodia, le metafore, le allitterazioni, le apparenti illogicità lessicali sono un codice purissimo di comprensione emozionale che la parte di noi razionale non riesce sempre a cogliere. La poiesis è un atto creativo fatto da qualcuno che ha necessità di essere accolto: il processo è dunque la comunicazione. Le parole diventano ‘cose’ perché si materializzano in forme espressive come testimonianze emozionali: la poesia diventa profonda emergenza in un tempo che non si distingue e si separa spesso dallo spazio.
 La poesia spesso è una voce responsabile di senso. E’ una denuncia dell’universo psicologico, di un io sociale e spesso contraddittorio che ricerca benessere e felicità in una dinamica metaforica ed esemplare. Il sapere poetico (Platone ci aiuta a capirne il senso) è pratica e competenza delle emozioni, cioè di tutti quei sentimenti che si accompagnano al nostro agire. La poesia ci dà la capacità di commuoverci e l’intelligenza della commozione. Pur non così temerario da pensare di capire il nocciolo della creatività sono curioso di spiarla quanto più è possibile (Paul Klee)


Quello che voglio indietro è ciò che ero
prima che il letto, prima che il coltello,
prima che la spilla e l'unguento
mi inchiodassero in questa parentesi;
cavalli trascorrenti nel vento,
un luogo, un tempo ormai lontano dalla mente.
(S. Plath)

La poesia allena al piacere e al dolore. Alla fine Platone ci dice che la Poesia, qualunque cosa se ne pensi è incantevole: ‘keleo’: ammaliare, incantare, dal greco.
La funzione della parola è sia di celare che di scoprire. Ma anche limitandoci a ciò che la parola fa conoscere, la natura del linguaggio non permette di isolarla dalle risonanze che sempre indicano di leggerla su diversi pentagrammi. E’ questa partizione inerente all’ambiguità del linguaggio che sola spiega la molteplicità degli accessi possibili al segreto della parola (Lacan - discorso di Roma)
E aggiunge Davila (Tra poche parole) Solo lo stupido sa esattamente perché crede o perché dubita.

Ma il sogno dura un attimo?
‘La coscienza del passato non è obbligata a dire nulla: è uno stato inevitabile, una certa velocità del cuore; è una condizione naturale sapere una cosa di cui si sia fatta esperienza. Bisogna però averla. Per fortuna ci sono i libri. C’è la poesia. La poesia è la manifestazione materiale di chi siamo stati in qualche tempo del passato. La poesia sta alla vita delle società esattamente come la coscienza del ricordo sta alla vita di un individuo. La poesia è fatta di luoghi dove, chissà quando e come, abbiamo già messo piede’ (Nicola Gardini).
La trama che incontriamo in queste parole è uno strumento di percezione della realtà: sono immagini che sfidano il proprio inconscio. Il lettore ridimensiona se stesso nel confrontarsi con il libro e ripercorre le ‘cose’ vissute attraverso il cammino emotivo, di sviluppo personale e meditativo. La nostra mente comincia a immaginare, a pensare, e si impegna a capire. Si annuncia il dono Autore/lettore: si stabiliscono legami comunicativi con il mondo dell’altro da noi. L’universo diventa cassa di risonanza.
L’Autore utilizza la parola per descrivere procedimenti prosastici e poetici: spesso hanno l’autorevolezza che non tradiscono l’armonia di sviluppi di frammenti che ci riportano quasi a una poesia audiovisiva. Si mettono in evidenza le urgenze dei luoghi fisici attraverso le costruzioni poetiche che si intersecano con gli elementi del quotidiano. Quindi essenza emozionale ed essenza reale/quotidiana: immagini ideali ed immagini concrete; pulsioni del cuore e tumulti esistenziali/sociali in un linguaggio scaltro, giovane, efficace, equilibrato.
 (....ogni scrittore, quando dice, è spinto dalla presunzione di sapere....
dal latino praesumptio (accusativo praesumptionem), derivato di praesūmo, propriamente "io prendo prima, io prendo anticipatamente".....in questo senso!
....ammettendo come vero che....)
Quindi  l’idea e l’esperienza. L’idea: la natura è arte e l’arte è natura, giacché l’arte umana non è che un prolungamento dell’arte della natura... L’esperienza che consiste nel prendere intensamente coscienza del fatto che noi facciamo parte della natura, che in un certo senso noi siamo questa stessa natura infinita e indicibile, che ci ingloba totalmente ( Hadot - il velo di Iside)
Il discorso di Camus al Premio Nobel della letteratura ha esplicitato quanta fusione e collegamento c’è tra l’artista e la realtà: L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più universale. E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte e questo suo esser diverso solo confessando la sua somiglianza con tutti.

La questione del rapporto tra l’italiano e i dialetti

Nel passato storico ritroviamo società che credevano che gli eventi e le vite ritornassero. Non c’era preoccupazione alcuna per l’avvenire sociale. I Greci, per esempio, sentivano il futuro come un prosieguo e non un cambiamento della condizione umana. Quando in Occidente trionfò il Cristianesimo, che prometteva una vita dopo la morte, ci fu una fortissima concentrazione sulla conquista dell’eternità e un deconcentrarsi sull’avvenire della società. Solo con il progresso scientifico è avvenuto un ridimensionamento tra la ragione umana che cercava di dissolvere mali sociali e la coscienza religiosa e quotidiana (Yves Bonnefoy). Eppure nel quadro inquietante in cui oggi tutti siamo gli autori, parliamo di poesia e di rapporto tra la lingua e i dialetti o di dove va la poesia e se c’è una post poesia. E così perdiamo la fiducia nelle intuizioni soffermandoci sulla decifrazione di contenuti concettualizzabili in una condizione di differita. La Poesia è un continuo ritorno al reale (Yves Bonnefoy) e ci restituisce il senso delle cose così come sono. Come un’antenna sensibile che registra le sequenze delle immagini allusive e fuorvianti.
Si aprono vie tra le parole con le parole e gli usi imprudenti o saggi dei dialetti mettono in pratica l’ostinata volontà di suonare le esperienze della propria terra dove i sogni sono prigionieri. Il bisogno di generalizzare diventa a volte una spinta incontenibile e credo anche speculativa. Il pensiero poetico non può mettere le catene agli eccessi, anche minacciosi, dell’utilizzo dell’altro da noi. La tensione è verso l’allontanamento dell’io dalla scintilla che porta al reale.
La trappola è tesa.
Può essere la postpoesia a liberare l’uomo dall’inquietudine, o è essa stessa turbamento? Credete sia ingenuo l’interrogativo? Ormai è disprezzata l’evocazione del sogno e della sua verità. E la parola sottende ancora la pulsione e il soffio interiore? Incorono la lettura del mondo e coloro che lo guardano con gli occhi aperti. E tra trenta anni al Maestro dirò (anche se non sono un notaio) che le relazioni tra le materie sonore saranno identiche a quelle di oggi. Come la presa di coscienza e l’incapacità di staccarsi dall’attimo che fugge. Percezione questa suscettibile di essere sostituita o defraudata.

Di parole, ce ne sono che si nascondono in mezzo alle altre, come dei sassi. Non si riconoscono a prima vista e poi eccole lì che però ti fanno tremare tutta la vita che hai, tutta intera, e nel suo debole e nel suo forte… Allora è il panico… Una valanga… Resti lì come un impiccato, sopra le emozioni … E’ una tempesta che è arrivata, che è passata, troppo forte per te, così violenta che non l'avresti mai creduta possibile solo con dei sentimenti. Dunque non si diffida mai abbastanza delle parole, è quel che concludo. (Céline - viaggio al termine della notte).




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