Intervista - Marc Tibaldi dialoga con Rita Pacilio

di Marc Tibaldi
Innanzitutto poeta, ma anche sociologa, musicista, editrice, Rita Pacilio articola questa identità molteplice con grande sensibilità, valorizzando la propria visione trasversale e concatenante. Le sue poesie e i suoi libri – in particolare Gli imperfetti sono gente bizzarra – sono stati tradotti in francese, spagnolo, arabo, rumeno, greco e hanno ricevuto importanti riconoscimenti in Italia e all’estero.
Quali sono stati i primi tuoi riferimenti di scrittura? Riesci a ricostruire a posteriori una genealogia?
Grazie a una bravissima insegnante, fin dalle elementari, mi sono appassionata ad Aldo Palazzeschi, e attraverso la sua poesia mi sono resa conto che la parola può essere arricchita di tanto senso emotivo, che è l’espressione più bella della musicalità insita nella natura e nel nostro corpo. Gli amori di scrittura degli anni successivi sono stati Pavese, Gatto, Cardarelli, e poi, fondamentale, è stato l’incontro con la sensibilità estrema di Dino Campana. Non riesco a trovare una genealogia tra la mia ricerca attuale e le letture di formazione. Attraverso lo studio della storia della letteratura mi sono lasciata rapire da scrittori e poeti molto distanti, da Shakespeare ad Artaud. Sento che dietro di me c’è un insieme molto diverso di riferimenti. Per esempio, penso che Pascal pur non essendo ricordato come poeta abbia fatto vera poesia, le lettere alla sorella Jacqueline, hanno una forte temperatura poetica, così pure le lettere di Grazia Deledda a Luigi Albertini, la stessa poesia che ritrovo nelle lettere di Kafka a Milena, dove ogni frase è visionaria. La poesia, per me, non è esclusivamente il verso, la metrica, e proprio da queste riflessioni ho concepito L’amore casomai, dalla possibilità di vedere la poesia nella costruzione sintattica della prosa, tenendo anche presente la ricerca di Caproni, Sanguinetti e altri che hanno spostato l’attenzione sulla prosa poetica.
La scrittura di Antonin Artaud – che hai citato – è un riferimento importante nella ricerca dello psichiatra Eugenio Borgna, attentissimo alla poesia, e non solo quella di Artaud. Guarda caso è proprio Borgna che – in una lettera – ti scrive, associandoti al pensiero poetante di Trakl: “da sempre leggo poesie che mi aiutano a resistere, e a comprendere meglio il dolore e la tristezza, la gioia ferita e l’angoscia, che sono nel mondo; ma di queste emozioni lei ci dona testimonianze inaudite e indimenticabili”.
È una lettera che mi ha fatto felice per molte ragioni: sia perché riconosco a Borgna un’attenzione molto penetrante alla poesia, sia perché, nei suoi libri, tocca tematiche importanti per i miei studi e la mia professione, come il rapporto con l’altro, l’importanza dell’esempio reciproco e delle dinamiche della comunicazione nelle relazioni e nella trasmissione del nostro mondo interiore agli altri. C’è una trasfusione tra gli studi che affronto per la mia professione di sociologa delle relazioni e la mia ricerca poetica: infatti, la mia parola passa attraverso l’empatia e l’introspezione, il guardarsi dentro.
È quello che ha sostenuto Stefano Gugliemin a proposito di “Gli imperfetti sono gente bizzarra”: “…Pacilio, mi pare, parla anche agli spaventati fuori dalle mura, insegna loro a non temere la debolezza, ma anzi di farne una forza per rifondare la comunità dei viventi”.
Sì. Ho ragionato sulla possibilità di un verso empatico – sulla comunicazione che dovrebbe essere sottesa nel verso, ma non sempre lo è – un verso che potesse parlare sì della bellezza, della vita, della denuncia, etc, ma che possa anche entrare negli altri, cercando di capire come si muove il mondo avvicinandosi con un ascolto empatico. Penso che ascolto sia una parola profondissima perché apre percorsi sensibili e di cambiamento concreto. Concetti come ascoltoetica della responsabilità, consapevolezza entrano a far parte del substrato esistenziale che, necessariamente, adopero nella mia scrittura.
“Il libro è visionario e intimo, ma in forza di una speciale qualità di composizione e concentrazione, evita tutti i rischi che si incontrano in un corpo a corpo con l’abisso”, scrive Davide Rondoni di un tuo libro in particolare, ma è una considerazione che si può estendere alla tua scrittura in generale.

È con la parola “accesa”, come diceva Mario Luzi, che si può affrontare l’abisso interiore e l’abisso esterno che è il mondo, la parola luminosa che dona la visione, che non copia il vissuto ma lo trasmuta arrivando dove il moralismo e la retorica non possono. La visione ci dà la lungimiranza per poter parlare. Che Davide Rondoni abbia confermato che oltre a desiderarlo questo obiettivo è stato anche raggiunto, mi fa un piacere enorme. La poesia parla della realtà, deve essere la nostra vita, parte dall’esistente, la differenza, però, è nella visionarietà della parola accesa. L’interiorità che l’autore inserisce nella parola, la parola non ha senso se non il senso, o meglio i sensi, la ricchezza, la profondità che ci mettiamo dentro. Per esempio, la parola “pietra” l’ho utilizzata in molti sensi e accezioni, assumendo una valenza differente ogni volta.
Non ti sembra che – grazie allo studio delle lingue e l’importanza delle traduzioni – ormai non si possa più parlare di letteratura italiana come se ne parlava un secolo fa? Ormai i riferimenti – pur continuando a scrivere in una lingua – sono pluriculturali …
So che la conoscenza del francese e le traduzioni (sia quelle che ho provato a fare, sia quelle che ho letto) mi hanno permesso di confrontarmi con autori importanti. Da Baudelaire a Prevert, la poesia francese è stata fondamentale per la definizione della mia ricerca. E leggendo Annie Ernaux ho provato una sorellanza di anima, di vissuto, e, di conseguenza, nella scrittura, nel lavoro sulla lingua. Impressione confermata quando lessi che chiese al suo editore di rimuovere dalla copertina dei suoi libri qualsiasi riferimento a un particolare genere letterario. Infatti la sua scrittura integra una varietà di generi differenti: la prosa narrativa, la diaristica, l’etnografia, la sociologia, e, ovviamente l’autobiografia.
Altro discorso da fare sarebbe quello della traduzione. Soprattutto, leggendo le traduzioni degli autori americani, ho notato che, molto spesso, viene tradotto il concetto soffermandosi meno sul linguaggio. Sono convinta, comunque, che le traduzioni diventino vere e proprie opere ex-novo. Ma la discussione sulla traduzione ci porterebbe molto lontano; in fondo la traduzione è realmente un’opera ex-novo in cui non deve mancare la visione di chi ha generato e di chi traduce.
L’essere nel mondo e la tua esistenza come sono presenti nella tua poesia?

Sì, entra, in maniera trasfigurata ma forte. Il senso di solitudine e di separazione, insorto a soli nove anni, dopo la morte prematura di mio padre e alla malattia di mio fratello, hanno abitato la mia scrittura. L’orfanità, il dolore, il corpo oltraggiato e ferito, i sentimenti di angoscia e di solitudine psicologica e sociale sono i temi dominanti attraverso cui passano le mie parole. In Non camminare scalzo ho cercato, di sezionare ogni ‘pezzo’ del mio corpo utilizzandolo come metafora espressionistica e surreale per denunciare la tragicità del sopruso e della violenza, mentre in Ciliegio forestiero, mi sono lasciata ustionare dal sentimento che diventa più maturo e ferito. In Tra sbarre di tulipani il corpo non gode più l’accadimento carnale, ma la vergogna della deturpazione della società che, fisicamente e moralmente, troppo spesso, condanna, soprattutto la donna, a una condizione di solitudine e/o a un modo di vivere poco appagante. Sfidare i baratri del dolore in uno scavo intimo fino a farne memoria corporea, è uno dei miei punti di partenza.
In una intervista hai dichiarato che la poesia “è una disponibilità allo stupore, una continua sperimentazione della bellezza e della condivisione della vita e della morte. Per me la poesia è sempre stato un luogo di esperienza, di elaborazioni e modificazioni che partono da un atto di fede e di speranza”. C’è una rivendicazione di contiguità e scambio tra la tua vita e la tua poesia…
L’attenzione culturale e professionale alle scienze sociali e psicologiche mi ha facilitato a utilizzare l’intimo e l’esistenziale nella stessa recitazione poetica, non come un “separato da sé”, ma come un’essenza unica e comprensibile: un esclusivo soggetto/corpo che si afferma nel mondo e nelle cose, che acquista padronanza e si spinge nella sua totalità e originalità alla ricerca di ciò che è possibile, alla rivendicazione, continuamente, dell’oggetto adeguato. In veste di sociologo, accompagnata dalla visione della poesia, ho scritto Gli imperfetti sono gente bizzarra, in cui ho osservato, non più un carcere, ma un ospedale psichiatrico. In questo sofferto lavoro la mia scrittura si è nutrita di lacerazione e di pietas. Invece Quel grido raggrumato chiude una trilogia sul cammino attraverso i temi dell’emarginazione: si presenta come un manuale del sopruso, contro chi ambisce variamente a manovrare il corpo delle donne e dei fanciulli. Ecco, attraverso la poesia, nonostante tutto, ho nominato l’innominabile nella prospettiva dell’educazione, della rinascita, della ricostruzione.
Per approfondimenti sull’opera di Rita Pacilio:

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