Recensione - Anna Maria Curci scrive su L'amore casomai di Rita Pacilio

Rita Pacilio, L’amore casomai. Racconti, La Vita Felice 2018

L’amore casomai di Rita Pacilio possiede e restituisce, attraverso episodi, momenti fermati con chiarezza espressiva, oltre ogni ambiguità, questo andamento, che provo a rendere con tre versi: «E con i sensi/ cercare il senso/ in ogni tempo». È avida questa ricerca dell’amore, dell’agape e dell’eros, dell’unione e dell’appagamento; è ricerca non di rado disperata o disillusa con ferocia rapida o estenuante.
Una Sherazade che a sua volta, un tempo e nei tempi, ha esperito le “conseguenze dell’amore”, ne ha gustato i frutti favolosi, dolci e amari,  racconta e condensa in versi – come se  fosse una terapeuta dell’ascolto che ora, narrando riporta e ripropone – bagliori e balzi su incontri, fotografie di interni, andirivieni tra divano e finestra, tra letto e cucina.
Esplorare, frugare, penetrare sono verbi che si alternano, ora in un lieve tamburellare, ora in un furioso percuotere, ad altri verbi, come sfiorare, carezzare, alleviare: l’amore può manifestarsi come sete incolmabile, come richiamo combattuto tra il dispensare generosamente e il palesarsi narcisisticamente, come ardore operoso, come tenero abbandonarsi, dopo.
Eppure, nel volgersi dei tempi e delle stagioni – le ore, i mesi, le fasi lunari, i luoghi, gli spazi en plein air o gli anfratti angusti, segnano, nei titoli dei testi nei quali l’opera si scansiona, un ‘girotondo’ di occasioni e versioni – resta una tensione pressoché inesauribile, l’inarcamento del corpo, quasi di ogni sua cellula, di ogni suo centro percettivo, a ricordare che il singolo umano, con il proprio moto incessante almeno nel limitato spazio temporale che gli è concesso, cerca, con ardore, appunto, e con brama assediata, perfino corteggiata, dalla disperazione, il “moto proprio” dell’Amore, inteso, oltre le classificazioni tranquillizzanti,  come Uno-Tutto.
© Anna Maria Curci

Sera di novembre

Si era trovato a parlare di lei più volte, perché conosceva bene la storia. C’è qualcosa di inquieto e di morte in queste città silenziose e dimenticate. Lo aveva meditato negli anni Venti quando il suo volto era pallido e lungo. Le aveva visto cambiare l’umore in maniera repentina. Significava qualcosa.
Significava attraversare la notte da analfabeta?
Le aveva visto chinare il capo in segno di stanchezza o solitudine. Dietro il vetro. Del resto alla sua età poteva permettersi gli uomini giovani e quelli anziani. Lo aveva già fatto senza conoscere il peso della coscienza. Da sprovveduta.
Certo non manca niente alla parete
il cielo immenso, l’albero,
il calco, portato qui dal giorno
prima a malapena
tenuto elevato nella cornice.
L’amore sa qualcosa dei ritagli
la linea che apprende fili sottili
chiome sporgenti sul terrazzo
lei anziana
con i calzini e una maglia rosa
al chiodo il volto
mentre parlano dal divano di fronte.
È questione di età, ripeteva. Le darà ragione il solenne accordo preso anni prima. Picasso e Gilot fu il racconto, la rassegnazione. E quarant’anni di differenza, la profezia. Continuare ghirigori con la matita in piena freddezza. Aspettare. Dalla parete il video in loop. Un risotto cucinato da Cannavacciuolo. Un piatto semplice. Le spezie non le uso. Il monumento affamato in fondo al cuore: la colazione alle due del mattino ha il sapore delle fragole di serra. Si impose svigorito. L’esilio era la poltrona bianca nell’angolo della stanza. Lui un burattino accasciato, non pretese nulla.
Dentro di lei abitavano tatuaggi colorati. Abbellivano l’esilio dell’incantatore. L’edera sulla pelle si lanciò nemica. Si riunirono gli dei. L’esistenza della luce un profondo collasso. L’uomo rubava segreti a Omero. Disse che era cieco e abbellì la voce. Finché morì oltre la libertà volteggiata nel fumo. Mezza finestra aperta. Combattere con il fato la fine di Tebe. Farsi riconoscere. Sanguinare questo dolore e placarsi. Celare, per un senso di vergogna o protezione, la mano stanca e fumare dieci sigarette in un’ora. Fumare e basta. Quella notte. Il fuoco del camino.
Come fosse lontana l’ombra.

Luna crescente

Bianco e nero. Bianco o nero. Una scacchiera sul tavolo. Con la mano piccola, muove la regina, mentre in televisione danno un revival di canzoni. Anni Sessanta. Ancora, tutto bianco e nero. Bianco o nero.
Sposta il re dalla fotografia.
Capite?
Non sa giocare. Non ha mai imparato. E adesso improvvisa il gioco. Prepara una mela, la mette in forno, poi le dà da mangiare pazientemente, come si fa con i bambini. La maternità al contrario. In quel quadro due contadini si abbracciano seduti sull’erba. Un cane li guarda, sembrano felici, Qui nessuno si abbraccia. La regina è la bambola che in cucina aspetta di essere servita. C’era una volta e non c’è più la figlia.
Passato, al passato, per passare.
Sul fuoco un brodino preparato per domani, la lucina notturna è già accesa nella camera di fronte.
Adda passa’ a nuttata.



Recensione - Andrea Galgano legge 'L'amore casomai' di Rita Pacilio


L’amore casomai – racconti di Rita Pacilio LVF, 2018
In questo libro, la vera forza e, se vogliamo, la vera cifra è una tensione sospesa. Anche in questa risoluta brevità attesa, in questa visione, ogni dettato cerca la materia e il gesto vivente, come se fossero unica stoffa e materia di sogno d’amore. Queste storie mi ricordano il tessuto umbratile di Carver, sembrano quasi raccontare le linee dell’umano, partendo da gesti, commozioni, abissi e riparazioni. I silenzi, i labirinti, le paure, le lacrime, concorrono a una dinamica di bellezza e precipizio, come se fossero anafonesi di dolenza e stanze vuote, radici e incanto. E racconta la natura del respiro, genesi e archetipo dell’essere. Come meraviglia, innanzitutto, parola del cuore sfilato, fondo, benedetta maledizione, pelle.
Andrea Galgano

Luna nascente bacio a ponente

Si innamorò della sua ruga, quella che porta tra gli occhi, un po’ più su del naso. Era in quel posto che le veniva bene la rabbia e il godimento. Lì, nello spartiacque dei pensieri.
La baciò.
Le diede un bacio come si fa con i bambini, a schiocco, a mordere le guance, con la saliva per pregustarne il sapore interamente. Per entrare. Si fece spazio in quel sentiero aperto. Rimase immobile giorni interi. Di schiena al mondo si innamorò di mattina, nel giorno della luna nascente.
E fu presagio del dire.
Una parola buona. Solo una.


***
Questa via che porta

Le devi dare un nome.
Un’intensità privata come la cosa che guardi nelle tempeste.

Se fossi stata lei sarei sparita, non avrebbe avuto importanza
la domanda alle due di notte. Se fossi stata lei avrei avuto
decenza
capito il momento buono per smettere il gioco delle parti.
L’immagine di me l’unico piatto della bilancia.
Lo sapevi?
Se fossi stata lei avrei morso l’erba, avrei pianto come unico
animale della terra. Avrei rallentato il passo dell’addio.
Sarei stata zitta dietro le quinte. Avrei tolto il saluto agli sconosciuti,
baciato il Cristo che amava.
Invece sono io. Sono io. La penitenza della tara.

***
Finirsi

Per dinamismo. Finire l’orgoglio nell’imprecazione. La mimica facciale. Avrebbe dovuto incontrarla sotto casa. Ma l’erba morta perse lo smeraldo nel sole. Con la carta scottex ripuliva la mela già lavata. Non si può aggiungere niente a ieri. Una bancarella vendeva tazzine di porcellana, stile inglese. Più in là, la prima edizione di Ossi di seppia. Via Roma, qui. Dopo cena. La tavola apparecchiata.

***
La stanza vuota

Vedere le cose con gli occhi ovunque, anche nei piedi. Dimenticare, un pezzo per volta. Difendersi con il silenzio. Lui non chiama, non risponde. Il silenzio e la condizione. Entrare in uno stato di grazia naturale. Riporre la coscienza nell’incosciente visione dell’orizzonte. Gridare senza suoni, un’emissione di vomito, turbinio di parole che da dentro fuoriesce e svuota. E ci si immola. Dal balcone il custode riempiva di terra fresca i vasi. Camminava da solo per la casa. A ogni quadro recitava un verso. In mano un bicchiere vuoto. Nell’altra la sigaretta spenta. I piedi divennero radici. Parlavano i rami. I presagi e la clorofilla. Le spine. Ci sono cose che devono avere molta importanza per questo motivo diventano insopportabili. Lei era importante. Lui lo sapeva.
Lei sul divano sgranava il rosario.

Ho fatto l’amore con te.
Ti ho tradito perché non te l’ho detto.
Un affamato che non trova cibo.
Un assetato.
Vagare tra le lenzuola
percorrere la schiena.
Saperla.
Affondare in sé la nave.
Fino in fondo.
Desiderare l’arrivo.
Rubare labbra a morsi di parole.
Chiamarla amore. Amore mio.
Fare.

Tra questi alberi, sotto queste pietre nere qualcuno si e amato.

Rita Pacilio (Benevento 1963) è poeta, scrittrice, collaboratrice editoriale, sociologa, mediatrice familiare, si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro, di letteratura per l’infanzia e di vocal jazz. Curatrice di lavori antologici, editing, lettura/valutazione testi poetici e brevi saggi, dirige per La Vita Felice la sezione ‘Opera prima’. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione Arte e Saperi. Ha ideato e coordina il Festival della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio. Sue recenti pubblicazioni di poesia: Gli imperfetti sono gente bizzarra (La Vita Felice 2012) risultato vincitore di numerosi Premi, tra cui Laurentum 2013, è stato tradotto in francese Les imparfaits sont des gens bizarres, (L’Harmattan, 2016 Traduction en français par Giovanni Dotoli et Françoise Lenoir) e per Uet Tunisi la traduzione in lingua araba (a cura del Prof. Othman Ben Taleb)Quel grido raggrumato (La Vita Felice 2014), Il suono per obbedienza – poesie sul jazz (Marco Saya Edizioni 2015), Prima di andare (La Vita Felice, 2016). Per la narrativa: Non camminare scalzo (Edilet Edilazio Letteraria, 2011). La principessa con i baffi (Scuderi Edizioni, 2015) è la sua fiaba per bambini; Cantami una filastrocca è un quaderno operativo per la Scuola dell’Infanzia (RPlibri, 2018) e ‘La favola dell’Abete’ la sua storia per la magia del Natale. È stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in inglese, in spagnolo, in catalano, in napoletano. A marzo 2018 la pubblicazione dei racconti in prosa poetica: ‘L’amore casomai’ (LVF).






https://parolapoesia.blogspot.com/2019/03/andrea-galgano-legge-lamore-casomai-di.html?fbclid=IwAR0JS5iHbcbqv3aOqeIh5SowPm7-OPtZDBpFgFDIl-x1GE4SOeicEjXtuf0

Recensione - Gavino Angius legge 'L'amore casomai' di Rita Pacilio

“L’amore casomai”, di Rita Pacilio, letto da Gavino Angius

L'amore casomai copertina
Facciamone una questione di genere. Genere letterario, ovviamente. Ebbene sì, questi sono racconti, come preannuncia il sottotitolo in copertina, porgendo la mano al lettore per stipulare il noto patto. Ed è un’indicazione verniciata di sana improntitudine, solo un pelino meno, poniamo, di quella messa in campo da Jamie Iredell che, qualche anno fa, osò intitolare un certo suo volumetto, oggi di culto: Prose. Poems. A Novel. 
Multiformi e inafferrabili, sono una famiglia differenziata di ardua collocazione tassonomica. Manovre d’avvicinamento, ibridazioni. Poemetti in prosa che si dilatano in versi sapientemente cadenzati per poi avvitarsi in sentenze e aforismi, aneddoti e dialoghi, non rinunciando alle tentazioni  e perché no? del botta-e-risposta rubato agli sms. Con un disegno d’insieme che ammicca al racconto in versi, o quasi versi, al prosimetro, all’epos. Sempre che i componimenti raccolti nell’Amore casomai (Milano, La Vita Felice, 2018) di Rita Pacilio siano singoli, e non tappe o stazioni di un flusso, di un continuo, di un’opera unica. 
Non facciamo alcun torto all’opera e all’autrice, se alterniamo lo sguardo d’insieme alla lettura microscopica. È il libro che lo suggerisce, talvolta lo impone. Più che frammentato, il testo è a segmenti, uniti da snodi flessibili e in apparenza precari, ma solidissimi, che assicurano la tenuta d’insieme, il polso della composizione varia, che si scioglie e rallenta, precipita, trova una sua regola. L’effetto d’insieme è garantito, e allo stesso tempo violato continuamente, da un tema, e da un intento musicale, dubitativo e aperto come vuole il titolo. La sequenza di racconti si ordisce in una storia, scandita in rapsodia ribelle di recitativi e arie. Riesumeremmo volentieri il desueto “cassazione”, se non ci avesse già pensato suo tempo Raboni, declinata però in forma non citazionista, a differenza di Raboni, ma, in largo compenso, con un intento e un piglio avventuroso. Intermittenze del respiro, prove di soffocazione, quelle che rendono supremamente e inesorabilmente lucido, non maculate dall’istinto di sopravvivenza.
Insomma, il libro è un intero, ha una sua vocazione al continuum, sorretto com’è da un basso ostinato sul quale s’innestano lacerti di storie, a punteggiare ritmicamente il tessuto d’una stoffa immaginativo-sonora. Un bildungsroman scomposto in fattori primi, se si vuole, come può essere concepito nel post-novecento
“Si sdraiò scomposto sul letto.” Reclama attenzione, quest’incipit cadenzato, marcato da allitterazioni. S’incomincia con un’azione, come in un romanzo d’azione, anche se l’azione qui è in apparenza rinunciataria e approssimativa, tende all’iperbole inversa. E già si preannunciano incastri e bilanciamenti fra agire e patire, perché, in certe situazioni, ben sappiamo che esse est patiS’invocano azione e passione, una voce che scaldi, e che cosa meglio della voce può veicolare in successive prospezioni racconto-romanzo-autobiografia (quell’autobiografia degli altri che è impossibile voler vivere, come rammenta un memorabile verso di Mei-Mei Berssenbruge). Cadenza, inno al linguaggio sulla portante del linguaggio. Ci sembra di veder affiorare come annegati dallo schermo d’un’acqua non troppo tersa, i lineamenti dei due agonisti, non vogliamo ancora chiamarli protagonisti. Anche perché l’identità delle figure che animano il libro, se la volessimo ravvisare, si sfalda e ricompone continuamente, con l’effetto di precarietà della sabbia che smotta sulla pendice delle dune o del volteggio d’una gonna a pannelli. E di ciascuna si potrebbe dire, come del personaggio-persona di Luna crescente: “Non sa giocare. Non ha mai imparato.” Dopo, non c’è alibi, nel senso dell’etimo: dove altro essere in quel momento dato, dove essere andati, dove altro stare.
Saranno prodigi dell’angelo che fa la sua comparsa, forse fin troppo terrestre, o sortilegi gettati dalla vecchina, fata, strega, sibilla, esseri perturbanti, deputati a emettere benedizioni e profezie, a disseminare enigmi? Presenze liminari. Di quelle figure liminari seguiamo le evoluzioni, dal carnale al filosofico. L’escursione delle atmosfere costeggia quella dei registri di stile e di lingua, sempre sorvegliatissima, e basterà soffermarsi sulla prima composizione per essere trascinati da un’onirica mezza luna, avvolti dal fiabesco d’un’abitazione fatta d’alberi, approdare al colloquiale dei pannelli solari gettati su tralicci, al cronachistico “quella non è stata l’ultima volta”, all’eros  − tentato dall’ironia  del seno “scoperto in addestramento”.
L’emblematica dell’amore-casomai (dove pesano sui piatti opposti della bilancia il caso e il mai) sa condensarsi e scaricarsi tutta in un punto: “Hai un anello messo di traverso”, balenante immagine di precarietà e di frettolosa conclusione, o assenza di conclusione. È capace di mettersi in scena con elementi fuori dalle convenzioni: tre attori, un messaggio telefonico replicato a cascata, i cerimoniali del voyeurismo e del bondage  (occorre dirlo?) verbali ed ecfrastici – e la scansione dei tempi – anch’essi verbali  − che riporta a un quotidiano quasi più minaccioso del sesso estremo, una doccia e i figli che ritornano da scuola. Il corpo dell’anatomia proiettato sghembo sul corpo dell’esistenza, dicibile e cieco, ovvio che non combacino i loro contorni. Trova pretesti, con didascalie per un dialogo impossibile, forzato, parole che vengono agitate come oggetti minacciosi, piegamenti d’ossa, urla compresse, e maschere e paraventi. In fondo, la presenza femminile che si profila, si vorrebbe “come una donna sana”. Sana, pronta a scaricare sull’innocente ignoranza verso i fatti del sesso, l’ignoranza madre della scoperta, amara o trionfale. O ancora, questa capziosa emblematica, con una variazione che è animazione, allestisce un tripudio d’oggetti quotidiani chiamati come comparse in un film: sarà casuale il brand name della nutella con l’iniziale minuscola che defrauda e forse irride tanto brand naming?
Il cerchio si chiude. Nell’incipit si invoca una voce, nel finale la voce proviene già fuori dalle quinte: “Un tavolo per due. Io non c’ero.” In mezzo, l’irrimediabile. Elisioni, cenni, tagli sapienti, anticipazioni, frenate brusche e sbandamenti. E la schermaglia spiazzante di deittici e pronomi – così necessari alla narratività, così proclivi a farsi gioco di specchi e trompe-l’oeil. Avviene perfino che il prosimetro si replichi en abîme nei singoli componimenti, mentre, in un contropiede assassino, verso e prosa rovesciano i fronti e si scambiano di ruolo. Così come si rovesciano il dentro e il fuori, il necessario e l’accessorio: “Si allontanò dal corpo e lo spinse verso l’uscita.” Gli strappi, le eresie, creano inediti effetti di senso con il tempismo perfetto di un’approssimazione sempre differita del dicibile. La frattura lascia trapelare un sé. Perché “Le fantasie a volte sono circostanze”, che abbiano come sfondo un ambiente silvestre o claustrofiliaco. Sono rappresentazioni educatamente oltraggiose, adorne di colori tanto freschi che quasi sbavano, successioni d’immagini, trasformismi allusivi, e i sedimenti che lasciano, finissimi, quintessenziali, sono la parte che rimanda all’intero e lo denuda.
Carico esistenziale spinto sull’orlo del precipizio di chissà quale avvento, ordinata da una sintassi corpuscolare che disloca e ricolloca blocchi, a volte con frenesia visionaria, questa nuova opera di Rita Pacilio. Più audace del precedente Prima di andare, che recava una modesta – solo quantitativamente, ma tutt’altro che timida – presenza, accanto ai versi, di prose in forma epistolare, e attestazione d’un itinerario perseguito con fedeltà alle scelte. Rubo altre immagini in azione dal Gatto, una delle prose più compatte, che si rapprendono in concrezioni sonore, generano rimandi, ecolalìe: “Dalla bocca viene fuori la prima voce.” “Le spiegò il significato del godimento la lingua veloce.” “Mescolarsi al tempo.” “Lei la febbre di notte. L’abbracciava stretto quando il bisogno di nutrirsi. Leccava al grappolo carnoso mentre il gatto spia e tace.”
Stile è anche dispositio, architettura, decontestualizzare e ricontestualizzare, scelta di spazio e di tempo, semantizzare per l’occhio della mente che testimonia, come qui l’enigmatico ed eponimo gatto. Quale che sia l’albero genealogico di questo L’amore casomai, ciascuno risponde per sé, la responsabilità è individuale, anche nell’assumere, trasformare o rigettare una tradizione, non diciamo fondarne una ex novo. Ci s’individua per genere e differenza, anche in poesia. In ogni opera di poesia che voglia dirsi riuscita, si riacutizza il vecchio tormento: accordare in giusta tensione senso e suono, secondo l’accezione più ampia che risulta in forma e s’impone, così alla rosa come al cammello, con buona pace di tutti, perfino dei ‘contenutisti sartriani di ritorno’, e neo-contenutisti. Nell’acquietarsi di Telemaco nel sonno, che chiude il primo libro dell’Odissea, nella metafisica del sapone di Ponge, nell’anonimo lui di Rita Pacilio, per il quale “… la storia aveva deciso il giorno di rendere giustizia all’apparenza perché la sparizione avesse dimora nel maglione a coste larghe”, la poesia condensa una vocazione all’esemplarità, al mito di fondazione, all’una volta per tutte.
Gavino Angius
Questa via che porta
Le devi dare un nome.
Un’intensità privata come la cosa che guardi nelle tempeste.
Se fossi stata lei sarei sparita, non avrebbe avuto importanza
la domanda alle due di notte. Se fossi stata lei avrei avuto
decenza
capito il momento buono per smettere il gioco delle parti.
L’immagine di me l’unico piatto della bilancia.
Lo sapevi?
Se fossi stata lei avrei morso l’erba, avrei pianto come unico
animale della terra. Avrei rallentato il passo dell’addio.
Sarei stata zitta dietro le quinte. Avrei tolto il saluto agli sconosciuti,
baciato il Cristo che amava.
Invece sono io. Sono io. La penitenza della tara.
Rita Pacilio (Benevento 1963) è poeta, scrittrice, collaboratrice editoriale, sociologa, mediatrice familiare, si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro, di letteratura per l’infanzia e di vocal jazz. Curatrice di lavori antologici, editing, lettura/valutazione testi poetici e brevi saggi, dirige per La Vita Felice la sezione ‘Opera prima’. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione Arte e Saperi. Ha ideato e coordina il Festival della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio. Sue recenti pubblicazioni di poesia: Gli imperfetti sono gente bizzarra (La Vita Felice 2012) traduzione in francese Les imparfaits sont des gens bizarres, (L’Harmattan, 2016, Traduction en français par Giovanni Dotoli et Françoise Lenoir) e per Uet Tunisi la traduzione in lingua araba (a cura del Prof. Othman Ben Taleb); Quel grido raggrumato (La Vita Felice 2014); Il suono per obbedienza – poesie sul jazz (Marco Saya Edizioni 2015); Prima di andare (La Vita Felice, 2016). Per la narrativa: Non camminare scalzo (Edilet Edilazio Letteraria 2011). La principessa con i baffi (Scuderi Edizioni 2015) è la sua fiaba per bambini. È stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in inglese, in spagnolo, in catalano, in napoletano. A marzo 2018, per La Vita Felice Edizioni, Milano, la pubblicazione dei racconti in prosa poetica: L’amore casomai.

RPlibri - Presentazione del Catalogo: 11 maggio 2019 San'Anastasia e 8 giugno 2019 Milano


Appuntamenti - la poesia di Rita Pacilio in cammino

La scrittura di Rita Pacilio. Premi, festival, partecipazioni, tra Italia, Nicaragua e Georgia. Gli appuntamenti di aprile e maggio 2019
In aprile Rita Pacilio parteciperà al XIV Festival Internacional Virtual de poesía de Granada, in Nicaragua. (collegamento in videoconferenza)
> 13 aprile, a Eboli, ore 17.00, Primo Circolo Statale, piazza della Repubblica. Evento dedicato al poeta Rocco Scotellaro, Rita Pacilio tra gli ospiti. L'autrice leggerà i suoi racconti/poesie tratti da L'amore casomai.
> 27 aprile, ore 17.30, a Santa Maria Capua Vetere, via R. D'Angio', l’Associazione Il Pilastro organizza Riflessioni critiche a cura di Flavio Quarantotto sulle poetiche di Rita Pacilio, Alfonso Marino, Mimmo Grasso. Letture e confronti degli autori. Focus sulla poesia sonora, visiva e cantastorie.
> 28 aprile, a Umbertide, Perugia, premiazione della XXVII Edizione del Concorso Nazionale di Poesia in lingua italiana “Umbertide XXV Aprile”. La giuria: Anna Maria Farabbi (presidente), Sebastiano Aglieco, Marco Bellini, Stefano Guglielmin, Rita Pacilio, Paolo Pistoletti.
> 9 maggio, dalle ore 18.00, a Roma, presso Polmone pulsante, Festival delle Arti: Apollo, Euterpe e Tersicore - Paesaggi interiori in tempi moderni. Presentazione del libro L'amore casomai a cura di Mariano Ciarletta, letture di Rita Pacilio, e di Il vento torna sempre a cura di Rita Pacilio, letture di Mariano Ciarletta.
> 22 maggio, alle 18.30, a Telese Terme, presso la Fondazione Gerardino Romano in piazzetta G.Romano: Presentazione del libro L'amore casomai. Felice Casucci dialogherà con l'autrice Rita Pacilio.
> Dal 14 al 20 maggio, Rita Pacilio, Diana Battaggia, Rosaria Lo Russo, Anita Piscazzi, Nunu Geladze, Keti Dumbadze parteciperanno al Festival di poesia internazionale di Tblisi in Georgia, sezione Libri Viventi, progetto del Ministero della cultura in collaborazione con l'Ambasciata d’Italia in Georgia, con il Municipio di Tbilisi e con la Fondazione Internazionale Nodar Dumbadze.
Un'Antologia di poeti italiani e geogiani – curata da Nunu Geladze – verrà pubblicata a breve dalla casa editrice La Vita Felice. Nell’antologia sono state inserite sette poetesse italiane: Rita Pacilio, Antonella Anedda, Maria Pia Quintavalla, Anita Piscazzi, Rosaria Lo Russo, Anita Piscazzi, Noemi de Lisi.
Segnaliamo inoltre alcuni articoli e interviste dedicati alla ricerca di Rita Pacilio, pubblicati di recente:
Andrea Galgano recensisce "L'amore Casomai", su Parolapoesia.
Mariano Ciarletta recensisce Prima di andare, su Poesiaeversi.
Augusto Benemeglio recensisce L’amore casomai, su Liberolibro.
Stefania Di Lino recensisce L’amore casomai su Golfedombre.
Adua Biagioli recensisce L’amore casomai.
Intervista a Rita Pacilio, su Incroci.
Alcuni premi:
• 2011, Premio VerbaAgrestia, Parlano in segreto due sedie, inedita;
• 2012, Premio Terzo Millennio, sezione Libro Edito Narrativa, per “Non camminare scalzo”;
• 2013, Premio Anselmo Mattei;
• 2013, Premio Laurentum, per “Gli imperfetti sono gente bizzarra”;
• 2014, Premio Nazionale Tra Secchia e Panaro, Primo Premio Poesia Edita, per “Quel grido raggrumato”;
• 2014, Premio Letterario Internazionale Città di Mesagne, per “Quel grido raggrumato”;
• 2018, Premio Avella;
• 2019, “Il moto del dolore e del perdono” vince il Primo Premio Rodolfo Valentino (poesia inedita Landays). La giuria del Premio è composta da: Giuseppe Conte, Chicca Morone, Tomaso Kemeny, Fabrizio Bregoli, Antonio Miredi e Paola Pennecchi.


Intervista - Marc Tibaldi dialoga con Rita Pacilio

di Marc Tibaldi
Innanzitutto poeta, ma anche sociologa, musicista, editrice, Rita Pacilio articola questa identità molteplice con grande sensibilità, valorizzando la propria visione trasversale e concatenante. Le sue poesie e i suoi libri – in particolare Gli imperfetti sono gente bizzarra – sono stati tradotti in francese, spagnolo, arabo, rumeno, greco e hanno ricevuto importanti riconoscimenti in Italia e all’estero.
Quali sono stati i primi tuoi riferimenti di scrittura? Riesci a ricostruire a posteriori una genealogia?
Grazie a una bravissima insegnante, fin dalle elementari, mi sono appassionata ad Aldo Palazzeschi, e attraverso la sua poesia mi sono resa conto che la parola può essere arricchita di tanto senso emotivo, che è l’espressione più bella della musicalità insita nella natura e nel nostro corpo. Gli amori di scrittura degli anni successivi sono stati Pavese, Gatto, Cardarelli, e poi, fondamentale, è stato l’incontro con la sensibilità estrema di Dino Campana. Non riesco a trovare una genealogia tra la mia ricerca attuale e le letture di formazione. Attraverso lo studio della storia della letteratura mi sono lasciata rapire da scrittori e poeti molto distanti, da Shakespeare ad Artaud. Sento che dietro di me c’è un insieme molto diverso di riferimenti. Per esempio, penso che Pascal pur non essendo ricordato come poeta abbia fatto vera poesia, le lettere alla sorella Jacqueline, hanno una forte temperatura poetica, così pure le lettere di Grazia Deledda a Luigi Albertini, la stessa poesia che ritrovo nelle lettere di Kafka a Milena, dove ogni frase è visionaria. La poesia, per me, non è esclusivamente il verso, la metrica, e proprio da queste riflessioni ho concepito L’amore casomai, dalla possibilità di vedere la poesia nella costruzione sintattica della prosa, tenendo anche presente la ricerca di Caproni, Sanguinetti e altri che hanno spostato l’attenzione sulla prosa poetica.
La scrittura di Antonin Artaud – che hai citato – è un riferimento importante nella ricerca dello psichiatra Eugenio Borgna, attentissimo alla poesia, e non solo quella di Artaud. Guarda caso è proprio Borgna che – in una lettera – ti scrive, associandoti al pensiero poetante di Trakl: “da sempre leggo poesie che mi aiutano a resistere, e a comprendere meglio il dolore e la tristezza, la gioia ferita e l’angoscia, che sono nel mondo; ma di queste emozioni lei ci dona testimonianze inaudite e indimenticabili”.
È una lettera che mi ha fatto felice per molte ragioni: sia perché riconosco a Borgna un’attenzione molto penetrante alla poesia, sia perché, nei suoi libri, tocca tematiche importanti per i miei studi e la mia professione, come il rapporto con l’altro, l’importanza dell’esempio reciproco e delle dinamiche della comunicazione nelle relazioni e nella trasmissione del nostro mondo interiore agli altri. C’è una trasfusione tra gli studi che affronto per la mia professione di sociologa delle relazioni e la mia ricerca poetica: infatti, la mia parola passa attraverso l’empatia e l’introspezione, il guardarsi dentro.
È quello che ha sostenuto Stefano Gugliemin a proposito di “Gli imperfetti sono gente bizzarra”: “…Pacilio, mi pare, parla anche agli spaventati fuori dalle mura, insegna loro a non temere la debolezza, ma anzi di farne una forza per rifondare la comunità dei viventi”.
Sì. Ho ragionato sulla possibilità di un verso empatico – sulla comunicazione che dovrebbe essere sottesa nel verso, ma non sempre lo è – un verso che potesse parlare sì della bellezza, della vita, della denuncia, etc, ma che possa anche entrare negli altri, cercando di capire come si muove il mondo avvicinandosi con un ascolto empatico. Penso che ascolto sia una parola profondissima perché apre percorsi sensibili e di cambiamento concreto. Concetti come ascoltoetica della responsabilità, consapevolezza entrano a far parte del substrato esistenziale che, necessariamente, adopero nella mia scrittura.
“Il libro è visionario e intimo, ma in forza di una speciale qualità di composizione e concentrazione, evita tutti i rischi che si incontrano in un corpo a corpo con l’abisso”, scrive Davide Rondoni di un tuo libro in particolare, ma è una considerazione che si può estendere alla tua scrittura in generale.

È con la parola “accesa”, come diceva Mario Luzi, che si può affrontare l’abisso interiore e l’abisso esterno che è il mondo, la parola luminosa che dona la visione, che non copia il vissuto ma lo trasmuta arrivando dove il moralismo e la retorica non possono. La visione ci dà la lungimiranza per poter parlare. Che Davide Rondoni abbia confermato che oltre a desiderarlo questo obiettivo è stato anche raggiunto, mi fa un piacere enorme. La poesia parla della realtà, deve essere la nostra vita, parte dall’esistente, la differenza, però, è nella visionarietà della parola accesa. L’interiorità che l’autore inserisce nella parola, la parola non ha senso se non il senso, o meglio i sensi, la ricchezza, la profondità che ci mettiamo dentro. Per esempio, la parola “pietra” l’ho utilizzata in molti sensi e accezioni, assumendo una valenza differente ogni volta.
Non ti sembra che – grazie allo studio delle lingue e l’importanza delle traduzioni – ormai non si possa più parlare di letteratura italiana come se ne parlava un secolo fa? Ormai i riferimenti – pur continuando a scrivere in una lingua – sono pluriculturali …
So che la conoscenza del francese e le traduzioni (sia quelle che ho provato a fare, sia quelle che ho letto) mi hanno permesso di confrontarmi con autori importanti. Da Baudelaire a Prevert, la poesia francese è stata fondamentale per la definizione della mia ricerca. E leggendo Annie Ernaux ho provato una sorellanza di anima, di vissuto, e, di conseguenza, nella scrittura, nel lavoro sulla lingua. Impressione confermata quando lessi che chiese al suo editore di rimuovere dalla copertina dei suoi libri qualsiasi riferimento a un particolare genere letterario. Infatti la sua scrittura integra una varietà di generi differenti: la prosa narrativa, la diaristica, l’etnografia, la sociologia, e, ovviamente l’autobiografia.
Altro discorso da fare sarebbe quello della traduzione. Soprattutto, leggendo le traduzioni degli autori americani, ho notato che, molto spesso, viene tradotto il concetto soffermandosi meno sul linguaggio. Sono convinta, comunque, che le traduzioni diventino vere e proprie opere ex-novo. Ma la discussione sulla traduzione ci porterebbe molto lontano; in fondo la traduzione è realmente un’opera ex-novo in cui non deve mancare la visione di chi ha generato e di chi traduce.
L’essere nel mondo e la tua esistenza come sono presenti nella tua poesia?

Sì, entra, in maniera trasfigurata ma forte. Il senso di solitudine e di separazione, insorto a soli nove anni, dopo la morte prematura di mio padre e alla malattia di mio fratello, hanno abitato la mia scrittura. L’orfanità, il dolore, il corpo oltraggiato e ferito, i sentimenti di angoscia e di solitudine psicologica e sociale sono i temi dominanti attraverso cui passano le mie parole. In Non camminare scalzo ho cercato, di sezionare ogni ‘pezzo’ del mio corpo utilizzandolo come metafora espressionistica e surreale per denunciare la tragicità del sopruso e della violenza, mentre in Ciliegio forestiero, mi sono lasciata ustionare dal sentimento che diventa più maturo e ferito. In Tra sbarre di tulipani il corpo non gode più l’accadimento carnale, ma la vergogna della deturpazione della società che, fisicamente e moralmente, troppo spesso, condanna, soprattutto la donna, a una condizione di solitudine e/o a un modo di vivere poco appagante. Sfidare i baratri del dolore in uno scavo intimo fino a farne memoria corporea, è uno dei miei punti di partenza.
In una intervista hai dichiarato che la poesia “è una disponibilità allo stupore, una continua sperimentazione della bellezza e della condivisione della vita e della morte. Per me la poesia è sempre stato un luogo di esperienza, di elaborazioni e modificazioni che partono da un atto di fede e di speranza”. C’è una rivendicazione di contiguità e scambio tra la tua vita e la tua poesia…
L’attenzione culturale e professionale alle scienze sociali e psicologiche mi ha facilitato a utilizzare l’intimo e l’esistenziale nella stessa recitazione poetica, non come un “separato da sé”, ma come un’essenza unica e comprensibile: un esclusivo soggetto/corpo che si afferma nel mondo e nelle cose, che acquista padronanza e si spinge nella sua totalità e originalità alla ricerca di ciò che è possibile, alla rivendicazione, continuamente, dell’oggetto adeguato. In veste di sociologo, accompagnata dalla visione della poesia, ho scritto Gli imperfetti sono gente bizzarra, in cui ho osservato, non più un carcere, ma un ospedale psichiatrico. In questo sofferto lavoro la mia scrittura si è nutrita di lacerazione e di pietas. Invece Quel grido raggrumato chiude una trilogia sul cammino attraverso i temi dell’emarginazione: si presenta come un manuale del sopruso, contro chi ambisce variamente a manovrare il corpo delle donne e dei fanciulli. Ecco, attraverso la poesia, nonostante tutto, ho nominato l’innominabile nella prospettiva dell’educazione, della rinascita, della ricostruzione.
Per approfondimenti sull’opera di Rita Pacilio: